"fino a che non va a segno è tutto da giocare"

martedì 3 settembre 2013

More than Words... Just "I'm Sorry"

 
Che poi sarebbe bastato un mezzo sorriso accennato e un "mi dispiace". O forse sarebbe bastato il mezzo sorriso accennato perché, quando si decide di perdonare, si perdona sulle intenzioni… e poco si ascolta delle vere spiegazioni. Buffo. Se dobbiamo scusarci in prima persona impostiamo un discorso, o almeno una bozza, ci pensiamo, ci ripensiamo, magari arriviamo anche a mettere in scena quei monologhi davanti allo specchio, per i quali potremmo morire di vergogna, se solo qualcuno ci vedesse. Se invece le scuse dobbiamo riceverle, manteniamo la maschera "dell'offeso", tiriamo e teniamo finchè un sorriso… quel mezzo sorriso scioglie tutto: e cominciamo a comunicare. E fondamentalmente, del discorso, ascoltiamo le prime trenta parole. Poi è quel mezzo sguardo, quella mano sul braccio, quei gesti impacciati e nervosi che fanno il resto. Che parlano per le parole stesse e ci confermano o ci smentiscono il pentimento per quell'atto o per quell'atteggiamento che ci ha ferito.
Quante volte in attesa alla cassa, sul tram, per strada, magari mentre siamo immersi nella nostra vita, con soundtrack da in-ear, veniamo travolti dalla vita altrui? Quanti litigi, quante mezze scaramucce si consumano davanti ai nostri occhi? E quanto, senza nemmeno rendercene conto, ci ritroviamo a prendere le parti dell'uno o dell'altro, a fare il tifo, a comprendere perfettamente gli errori di comunicazione di quegli individui e a riflettere sui nostri, di errori? Con il cervello che tra sé e sé dice "Non l'ascoltare, dai, non ci cascare, è solo una provocazione, è infuriata, non lo vedi? In realtà vuole solo un abbraccio, una carezza che le sposti i capelli ed un bacio: fallo, stupido! Non farla andare via!"  e due secondi dopo " Non ci capite proprio nulla, voi e quell'inutile cromosoma Y!" oppure "Basta! Lo vedi che sei pesante? In confronto a te una portaerei è un piombino da pesca, ci credo che poi guarda il culo a quell'altra!" o ancora "Lo vedi che è uno stronzo? Tu sei almeno dieci spanne sopra: che cosa ci fai con quel soggetto lì? Fuggi!".
Un giorno qualcuno mi disse che non bisognerebbe mai ascoltare quanto racconta il mondo esterno, siano essi racconti positivi o negativi, complimenti o critiche, poiché alla fine l'unica cosa che conta è la visione che ciascuno ha di sé stesso: perché sarà quella a muovere le scelte, gli atteggiamenti, la vita. Questa persona però omise di raccontarmi se questa massima valesse o meno anche per lo scusarsi. Dicono anche che le critiche, le grandi capostipiti dei litigi, siano come un germe mortale, che rischia di fiorire quando si è più deboli e rischia d'intaccare quella visione che ciascuno ha di sé stesso… può quindi uno "scusa" uccidere il germe di una critica?
Personalmente credo di no, però quei gesti titubanti, goffi e nervosi… Che poi, sarebbe bastato un mezzo sorriso accennato, una mano sul braccio e un "mi dispiace"…

giovedì 15 agosto 2013

Facing the Ocean #part2

E sia, siamo arrivati a quel punto del viaggio in cui hai dimenticato in che giorno sei e dove hai messo le chiavi di casa per il ritorno. I giorni scorrono lenti e le sensazioni di quest'isola sono sempre diverse.
Virginia è partita e con lei i racconti dell'Australia sono stati sostituiti da quelli di altri meticci: metà polacchi metà americani, metà spagnoli metà marocchini, metà irlandesi metà tedeschi. Come dice "la Canci" questa è una di quelle situazioni in cui sarebbe meglio non chiedere da dove vieni ma piuttosto dove vai.
Poi c'è l'isola, imprevedibile, capricciosa, dormiente ma al contempo irrequieta. Ovunque ti segue il ruggito dell'Oceano e questo infonde pace: è come se di fatto non ti sentissi mai solo, in qualunque punto di questa terra. Segui il rumore dell'Oceano, arrivi alla costa, ed in qualche modo sai che troverai il modo di tornare a casa.
I ragazzini che ho incontrato sull'aereo si sono ammazzati: uno ha collezionato una pinna in petto con taglio del capezzolo, 6 punti interni e 9 esterni. È dire che gli è andata "grassa" è sminuire il pericolo della calzata che hanno fatto: con l'Oceano non si può scherzare, vince sempre Lui.
Infine è arrivata Lei, sul reef, con la paura che le braccia non tengano fino alla line up, con l'insicurezza che la corrente ti porti troppo fuori - e lì sarebbero ca...- smentendo ogni falsa diceria sui surfisti, che siano temerari, impavidi ed indomiti: tutti, prima o poi, se la fanno sotto, anche se difficilmente lo ammetteranno. Lei, pulita, precisa, mezzo metro per 150 metri di corsa, infinita, estatica, con la sensazione di volare, con la sensazione che possa durar per sempre.
Poco importa quello che c'è attorno, frega niente se l'insegnante è un coglionazzo ossigenato con insicurezze ataviche: c'era Lei ed è valsa quattro giorni di niente.
Sentire i muscoli che fanno male, il cuore che batte all'impazzata e la voglia immediata di ricominciare, anche se ci si deve fermare. Un sorriso, che parte da dentro, come dallo stomaco, come delle farfalle. Poi sollevi la testa dall'acqua, ti pari con le braccia, controlli i pericoli e finalmente respiri: ed è come se lo facessi per la prima volta. La prima onda da reef.

venerdì 9 agosto 2013

Facing the Ocean #part1

Ho sempre pensato che gli aerei fossero posti magici. Non solo perché realizzano il sogno atavico degli uomini, quello di volare, ma soprattutto perché, in maniera più palese rispetto ad altri mezzi di locomozione, prendere un aereo è, di fatto, un atto di fede. Sali, saluti l'hostess e ti affidi totalmente ad uno sconosciuto che, su campo a te pressoché sconosciuto, speri ti porti a destinazione. E mentre sei lì, con il naso incollato all'oblò, realizzando la pochezza del genere umano se visto in scala 1:10, tra il magazine delle offerte ed il saluto dello staff, sei completamente solo. In balia dei tuoi pensieri. Non ci sono social network, né telefonate, né tantomeno sms che ti possano salvare. Neppure un buon romanzo. Se vogliono, i tuoi pensieri, in quel luogo sospeso tra le nuvole e l'atmosfera, ti mettono spalle al muro o, per meglio rendere l'idea, spalle al tappeto, neanche fossero cintura nera di karatè. Un viaggio per le Canarie credo sia un buon lasso di tempo per riflettere prima di domandare all'hostess il Prozac. Il passato è virtualmente seduto accanto, fortunatamente abbastanza lontano da non causare fitte, abbastanza vicino per capire che certi errori tornano ma almeno, da principio, la volta successiva, con un po' di fortuna ed un po' di senno, si possono riconoscere e non farli restare. Sul seggiolino scomodo, tra le ginocchia che formicolano ed il collo indolenzito si può realizzare quanto quella cosa che tutti cercano in fondo nella vita, ovvero l'amore, una volta davanti, faccia paura. Sì, dico a te, non mi freghi, Sei meglio di quello che vuoi mostrare, nessuno ti vuole salvare, anche se continui ad urlare disperatamente ed in fondo è quello che cerchi, nessuno verrà a prenderti ma, se lo accetti, nonostante continui a scalciare come se avessi tre anni e ti stessero portando via dalle giostre, se la smetti di dimenarti, una qualche forma di amore, che ancora non so, qui, per te c'è. Jack Johnson in una sua canzone afferma di  non sentirsi a proprio agio in aria, di star meglio con i piedi per terra e, nell'arco temporale di poche canzoni, di aver bisogno che "questo vecchio treno si rompa, così che possa fare una passeggiata e guardarmi attorno". Così sembra il genere umano, col palato arso dalla sete di vita e, al contempo, con l'hangover per averla assaporata. 
Davanti agli occhi Virginia, che a vent'anni, un fisico da urlo e la nostalgia per l'anno sabbatico in Australia è il tipo di ragazza che tutte vorrebbero essere: un metro e cinquanta di muscoli senza accenno di cellulite, bionda per il sole, l'aura sensuale, il sorriso contagioso e la sfrontatezza del suo lavoro da barista belga, che reputa il migliore al mondo. E poi la parte che fa di lei un cristallo di Boemia: gli shorts anche in spiaggia, le mille sigarette se parla del passato, i tre mascara e le due lacche per capelli ed il suo sorriso timidamente accennato quando, aprendo la porta del bagno dice "scusa, lo so, sono in ritardo ma io se non mi sento a posto non esco... Il fondotinta per caso mi rende arancione?"
E Silvia, l'accento spagnolo, la laurea in odontoiatra e la passione per il ballo. Perché, come dice lei "alla fine ti cambia la vita". Entusiasta, rassicurante, altruista e affatto invadente, quel tipo di persona che ti sembra di conoscere da una vita: di quelle che ti lasciano l'ultimo boccone di una delizia, non perché non lo desiderino, ma solo perché, per loro, godersi la tua espressione soddisfatta, dopo che lo hai gustato, vale nettamente di più che averlo assaporato in prima persona.
E poi c'è Lui. Tanto atteso e bramato. Limpido, immenso, spaventoso ed affascinante, Carezzato dal vento, che tutti i pensieri collezionati sull'aereo se li porta via facendo volare anche quando i piedi sono ben saldi e nudi sulla sabbia. Ogni brivido di freddo e quell'esitazione prima di affidarsi è come un Battesimo, un atto di Fede, dentro Quell'immensità che tanto custodisce e tanto può togliere in pochi istanti. Le cattive vibrazioni mutano di segno ed il male, per quegli istanti di abluzione, sembra scomparire." Ti ho aspettato così a lungo: ora però sei qui. Però me la sveli una cosa ora che siamo solo io, te, le maree, le onde e tutti i continenti che abbracci: l'amore, se esiste, è come te?"

mercoledì 26 giugno 2013

A passo di danza...

Se tu avessi trascorso il tempo che impieghi a dar fastidio alla mia vita a cercare di fartene una, ora ne avresti una tutta tua. Forse migliore. Di sicurò meno misera. Ma io, sulla tua miseria, ci ballo. A passi veloci. Poi lenti. Con le scarpette leggere. A far fluire la rabbia, a sputare il veleno che hai lasciato in giro. Perchè, nonostante tutto, io rido: e non esiste peggior dispetto che la felicità.

mercoledì 1 maggio 2013

Pantha Rei



E poi ritrovarsi ancora qui. Ancora così. Una valigia per terra, lavatrici da fare, biglietti nelle tasche, ricevute e ancora quella sensazione. Quella che per la prima volta hai provato a quattordici anni, che ancora, di tanto in tanto, non t’abbandona. Quella per cui tuo fratello ti regalò un cd, che citava così “Se hai bisogno di fuggire da un paese con 20.000 abitanti, vuol dire che cerchi di fuggire da te stesso. E da te stesso non fuggi nemmeno se sei Eddie Mercks”.
È quel dolore sordo che si prova al distacco della pellicina dall’unghia, non si vede, in compenso si sente benissimo, qualunque cosa si sfiori.
Allora negli occhi ancora il mare, sulle papille il gusto vellutato dello yogurth e tra i capelli l’odore del pino e degli alberi in fiore misto a quello delle spezie. E nella mente realizzare che quanto volevi lasciare in giro continua, in qualche modo, a seguirti come un’ombra. Come un qualcosa di appuntito che è rimasto incastrato tra le scapole, che continua ad augurarti buongiorno e buonanotte. Compagno di viaggio anche davanti a quelle colonne antiche, quelle, che, per il solo fatto di esistere ed essere resistite, sono una Sinfonia alla vita. Camminare realizzando che su quelle stesse pietre grandi filosofi e uomini e storie e offerte agli dei son passate. Sentirsi una formica con un peso profondo e straziante ma, dal basso di quei pavimenti levigati, assolutamente irrilevante. Quante cose hanno visto quelle colline? Quante persone scalze, con sandali, con scarpe diverse, in base alle mode del momento, avranno camminato sulle stesse pietre in compagnia del medesimo peso?
E poi, quando lo sguardo si rabbuiava, trovarti nel mezzo di un Gineceo, che esiste davvero, non è solo nei libri di Storia antica. E capire quanto, scioccamente, hanno perso i popoli occidentali in nome del progresso. Donne che in un’altra lingua apportavano parole e aneddoti, come balsami, a lenire l’anima e abbracci, a cercare di riscaldare il cuore. Tornare a casa con un biglietto d’aereo, una relazione consolidata con lo Tzatzichi, un bagaglio d’amore, un po’ di paura per il futuro e una frase, di un’anziana saggia “Ricorda, piccina, che la qualità di una relazione si vede dalla qualità della separazione”. Uscire di casa e ritrovarti per caso lì, incapace di curarti del mio peso, scoprire che la tua opera di ostracismo continua e risentire nelle orecchie l’altro aforismo, quello di una giovane saggia “Peggio di un uomo stronzo, c’è solo un uomo ragazzino che, forse, non sarà mai capace di diventare un uomo”. Sentirsi il cuore liofilizzato. Poi ringraziare la Vita perché, quando, quel liofilizzato, stai per spazzarlo via credendo sia, ormai, lui polvere inutile e tu una completa idiota rincoglionita, in quel momento, Lei, ti manda qualcuno con la colla e un abbraccio. E sì, non ci capirai un cazzo, non ti farai mai i fatti tuoi in nome del "vivi e lascia vivere" e crederai, scioccamente, ancora di poter cambiare il mondo partendo dai singoli ma, in fin dei conti, certe circostanze, a sprazzi, sembrano suggerire che tra te e Gengis Khan, ancora un po’ di spazio, c’è.

venerdì 5 aprile 2013

Pregio o Follia?

La chiamano sensibilità e mentre lo dicono hanno quasi un riso di scherno sul volto, un ghigno, quel cinismo di chi crede di aver già capito tutto su come gira il mondo.
Dimenticano, però, che di quella forza è intriso il riso dei bambini, le bocche socchiuse, i nasi all'insù, lo stupore degli anziani, l'occhio dei fotografi che con i loro scatti tolgono il fiato a questi stessi cinici.
Di quello "scherno" sono dense le parole dei poeti e le note dei musicisti, quelle sinfonie che fanno da colonna sonora alla vita dell'umanità.
Su quella tanto derisa "sensibilità" sono stati costruiti i mattoni delle rivoluzioni, sono state cucite le vele dei marinai verso nuovi mondi e rattoppate quelle, ormai a brandelli, sulla via del ritorno.
Di questa "vergogna" si nutrono i muscoli degli artisti che a tratti veloci dipingono e costruiscono un mondo, magari non reale, ma di certo, il più delle volte, migliore.
Una porta verso l'infinito e una valvola di sfogo per la pazzia di questa quotidianità. Qualcuno che oltre a specchiarsi in un lago tranquillo osa immergere un dito per scoprire che 
"qualcosa di più deve esserci oltre tutto questo".
Preservala, nutrila, coccolala, curala: sarà il polmone della vita. Nonostante gli amori e i dolori, nonostante sarà a pezzi, sarà dannata, maledetta, abbandonata, rinnegata fa' sì che non sia mai rimpianta. Un giorno, quando tutto sarà buio sarà la luce, la tua luce, personalissima ed unica, per poter vedere, anche al buio, in un mondo cieco.


mercoledì 3 aprile 2013

Con un filo di voce o forse di più...


"... Leggi il pensiero e non dire che lo sai leggere. 
Sarà il nostro segreto. 
Leggi queste mie mani massacrate, amore mio e tirane fuori la vita. 

Leggi il mondo. 
Leggilo bene. 
Senza inciampare. 
Ché il mondo gira su un asse, e dopo 24 ore torna allo stesso punto. 
Non aver paura del buio e della luce. 
Non aver paura, credi, in generale. 
Queste sono le uniche parole che riesco a dirti amore mio. 
Le ultime forse.."