E
poi ti trovi così, d’un colpo, quando meno te lo aspetti: grande. I capelli
bianchi di tuo padre, tua madre un po’ più curva ed il peso del mondo che senti
premere sulle tue spalle. Capisci che il tempo delle risposte urlate, della
contestazione, della post adolescenza è bello che finito: quelle persone che ti
hanno cresciuto sono più simili a bambini che ad adulti. Vorresti ancora
tendere la mano per chiedergli il gettone per le giostre oppure metterti in
religioso silenzio ad ascoltare le loro mille risposte ai tuoi perché. Invece
no. Adesso sei tu a dover dare risposte, tu a dover spiegare loro, alle persone
che ti hanno cresciuto, come funziona, come gira il fumo, cosa significano quei
mille tastini “touch” che a volte mandano in confusione te, che ci sei
cresciuto, figuriamoci loro. La pacchia è finita. Lascia la felpa col cappuccio
e punta la sveglia alle 6.45: questa è la vita, ora tocca a te. E anche se
accanto hai qualcuno a condividere con te questo trauma, anche se hai una
spalla diversa su cui appoggiarti per riprender fiato, anche se tutti ti dicono
che “poi ci fai l’abitudine” ma “mai fino in fondo” credo che per quanto si possano
formare rughe sul volto nessuno sia mai pronto quando si tratti di fare un po’ da
genitori ai propri genitori…
Se "Una farfalla, sbattendo le ali in America, potrebbe provocare un ciclone in Asia" allora ogni passo che facciamo in una qualsivoglia direzione potrebbe potenzialmente sconvolgerci la vita.

"fino a che non va a segno è tutto da giocare"
martedì 13 novembre 2012
mercoledì 15 agosto 2012
Un tempo per aspettare, un tempo per remare
Ferragosto a Peniche. E dalla pace il crollo. Oceano che si gonfia, vento offshore e pareti pronte a spalmarti senza misericordia sulle spume. Poi tempeste di sabbia, nuvole gravide e grigie che corrono veloci. Il vento che ti entra nei vestiti e ti preme contro il viso fin quasi a soffocarti il respiro. Infine la pioggia, a secchiate, violente, a pungere la pelle, a togliere il sonno: a rendere un inferno quanto sembrava un paradiso.
Appannato, freddo, confuso, umido tanto da avere l'impressione di essere appena usciti da una doccia, di veder doppio. In tutto questo i ragazzi sono fuori e solo il Lord dell'Oceano sa come torneranno a casa. Ed io, un po' preoccupata, lo sono: perché in fondo si è sempre un po' tesi quando si lascia alla mercè del caso qualcosa a cui si tiene. Mia mamma mi ripete sempre che ci vuole più amore a lasciar andare libero quanto si ama piuttosto che a tenerlo vicino: vedere la sottoscritta. Senz'altro ci vuole più coraggio. La consapevolezza e la speranza che il Cosmo ti rimandi quanto hai lasciato andare affinché il ritorno sia una libera scelta e non una costrizione. Aspettare. Sono anni che ci provo aggrappandomi a un pezzo di polistirolo levigato al vetro ma una parte di me sembra non volerne sapere: come una quindicenne chiusa in camera il sabato sera. Allora in mezzo a quell'Oceano con le pareti da un metro è mezzo che, a volte, è la mia vita mi chiedo se ci sarà mai qualcuno ad urlarmi "paddle". Ma talvolta non basta aspettare. E non è sufficiente remare. Come ieri mi ha urlato qualcuno, alle volte si deve remare come se si remasse "per la propria vita": profondo, veloce, morbido sull'acqua, attento e nonostante le migliori intenzioni, quasi sicuramente doloroso. Quando remi per un'onda con una parete ripida e scoscesa devi essere certo di volerla prendere, senza esitazioni: devi remare come se remassi per salvare la tua vita.Sarà sicuramente spaventoso, forse esasperante e a tratti difficile e laborioso: ma potrebbe essere l'esperienza più bella da raccontare ai nipoti. In mezzo ai lividi, il Vento, talvolta, non ti chiede se sei pronto ad aspettare, piuttosto ti dice "Hey, baby, hai davvero gli attributi per remare?"
lunedì 23 luglio 2012
Polpettone alla Sex and The City
L’aria sulla pelle ed una leggera brezza che
scorre lieve sulle mie gambe. La seta. Milano. Il retrogusto del prosecco che
si mescola al curry del polpettone. Risate ed un piccolo pensiero nella testa:
fanculo il mondo e quello che non va, la felicità deve avere queste sembianze.
Il suono di una risata misto al retrogusto amaro della Menabrea e alla
leggerezza di spirito di una serata con le mie amiche. E anche se forse non
tutto procede secondo i forecast, anche se i rimpianti sono un po’ troppi per
la mia età e la strada è poco convenzionale, in fin dei conti, con un pizzico
di fortuna, il percorso è ancora lungo davanti a me. Da percorrere a passi
svelti e dosando le pause ma, tuttavia, roseo e sanguinante per la strada verso
il mio Nirvana. E anche se vivo in una città che richiede un impianto d’antifurto
per avere l’illusione di essere al sicuro, mentre altro ti deruba
silenziosamente quotidianamente tra la tazzina del caffè ed i panni da stendere,
stasera, ho il portafogli più sgonfio, il fegato appesantito, il fiatone e
mille dubbi però – e ci sono casi in cui il però è fondamentale – vado a
dormire con un piccolo sorriso sul cuscino, convinta, purtroppo, che domani non
saranno l’alcool e il cibo a provocarmi la nausea: baserà il quotidiano on-line.
Ma stasera, apprezzo sia andata così.
venerdì 13 luglio 2012
Imparare la pazienza delle onde di andare e venire ...
Quasi le tre di notte prima di un’intensa
giornata ed ancora una valigia esplosa sul pavimento. Quasi come i miei
pensieri. Il caldo addosso che si appiccica, come quella stanchezza che mi
vorrebbe far crollare sul letto e al contempo mi tiene lontana dal sonno, per
chiudere i conti nella mia testa e gli obiettivi nella nottata. E in tutto
questo viaggia troppo veloce, la mia mente, la mia voglia di sfondare il mondo:
sentendo tutto il peso della zavorra del passato che, ogni tanto, ripassa da
qui. Alle volte sono sorrisi, altre volte mezze lacrime e a volte, come
stasera, non si sa. Non si sa se voler provare amore, odio, rimpianto,
tenerezza o rassegnazione. Una cosa è certa: è stato ed ha lasciato un segno.
Perché se dopo un anno ripassare in certi luoghi rievoca profumi, ricordi e
sensazioni e contrazioni nella respirazione qualcosa, sì, è stato. E stasera ringrazio quasi i miei impegni e
quella buona stella che, forse, ha voluto evitarmi una manata in faccia da
mettermi al suolo, lasciandomi ancora “quell’onda di sangue alla testa” da farmi
ricordare quanto siano i dettagli a cambiare i ricordi. E tra un costume ed uno
spazzolino, tra l’agenda ed il caricatore penso quasi che, a volte, la migliore
opportunità è quella che non si coglie, il miglior amore quello che non si
vive, le migliori parole quelle che non si sussurrano: e che il meglio, il
meglio della mia vita, bhè quello deve ancora venire. Allora domani riprenderà tutto come
in un loop: l’occasione, il brindisi, l’ingresso, i sorrisi, gli sguardi e quella sorta di
confidenza innata, le braccia leggermente carezzate per sbaglio, alla ricerca
di un bicchiere o per dare conforto. Ed io, io starò benissimo, perché il
copione non sarà il mio, io sarò là, verso quella parte della mia vita che deve
ancora venire: sarò in viaggio verso il mio oceanomare.
domenica 8 luglio 2012
A tie belt to free my "welt"
Who says a tie is just for a neck?
Maybe we should learn to think more with the stomach and less with our head.
Maybe we should lower our "thinking power house"
So, today, my tie, fits perfectly...
Maybe we should learn to think more with the stomach and less with our head.
Maybe we should lower our "thinking power house"
So, today, my tie, fits perfectly...
lunedì 25 giugno 2012
Lyrics for a friend
Quest'anno mi sembra giusto farlo qui, su questo blog
per il quale, a volte in giornate frenetiche, altre volte
uggiose e lente, dal nulla, ho trovato i tuoi commenti a ‘svoltarmi’ la giornata.
Non che sia un giorno speciale dopo i 18, anzi, alle volte è quasi un giorno da cancellare ( … mmm, ne so forse qualcosa? )
ma tu, al mio, c’eri e mi hai regalato una canzone, nemmeno a farlo apposta
quella che ti avrei chiesto - che i miei esercizi sulla comunicazione mentale
stiano cominciando a dare i loro frutti? - se solo il ghiaccio, la vita e una
vecchia conoscenza non mi avessero portato altrove. Ed è proprio questo il
bello di come ti conosco io: l’altrove. C’è sempre un ‘altrove’ verso il quale
dobbiamo andare, improrogabilmente, ma poi, a random, ci troviamo a caso nei
momenti e nei punti di contatto più improbabili: il blog, Ben, i viaggi, gli
autori, le tavole e la stessa grammatica alle elementari ( ps: la proposta per ‘trova
l’intruso nel blog’ è ancora aperta). Un vecchio saggio disse che questo è il
bello delle relazioni umane. E adesso che il tuo primo singolo è stato eletto a
colonna sonora ufficiale sulla costa portoghese e anche altrove nel mondo (le
ultime dell’altro Jack, quello USA, lo davano in un accampamento Marines in
mezzo alle bombe, fai te…) adesso che non c’è più modo e tempo di cazzeggiare
parlando di filosofia, adesso che per ascoltare un concerto bisogna prenotarsi
una settimana prima, ora che ‘la pezza’ al braccio che ci ha fatto conoscere si
è un po’ estesa (bando al politically correct! che noia!) ora che si sta, insomma,
andando, ancora una volta, ‘altrove’ non mi resta che sperare che Richard Bach,
forse in un momento di supercazzola filosofica - bei tempi - avesse ragione. Tanti auguri my
friend: buon compleanno.
“Se la nostra amicizia dipendesse da cose come
lo spazio e il tempo, allora, una volta superati spazio e tempo noi avremo
anche distrutto questo nostro sodalizio! Non ti pare?
Ma se superi il tempo e lo spazio, non vi sarà che l'Adesso e il Qui, il Qui e l'Adesso. E non ti sa che, in questo Hic et Nunc, noi avremo occasione di vederci, eh, ogni tanto?”
Ma se superi il tempo e lo spazio, non vi sarà che l'Adesso e il Qui, il Qui e l'Adesso. E non ti sa che, in questo Hic et Nunc, noi avremo occasione di vederci, eh, ogni tanto?”
giovedì 7 giugno 2012
Come Cenerentola a mezzanotte...
Alla fine mi hai fregato. E se non fosse per
il rispetto che si deve tenere verso chi è passato sull’altra Riva, giuro, che
ti riempirei di insulti e schiaffi. Come quelli che ti davo anni fa e che ti
facevano sorridere perché, nonostante il mio impegno, riuscivi sempre a pararli
e di conseguenza sembravano quelli di una femminuccia. Ed io m’infuriavo. Per
tutti questi anni mi hai lasciato una dannata illusione: ci hai lasciato una
dannata illusione. E lo so che il nostro, ora, è solo puro egoismo ma tu, grandissima
testolina calda, eri la mia prova vivente della teoria “sliding doors”. Io, se
non ti avessi incontrato, posso scommetterci l’anima che non sarei stata quello
che sono oggi. Forse dovrei anche prendere questa gabbia al collo come il tuo
ultimo monito, l’ultimo saluto, visto che l’ultima volta che ti ho abbracciato,
ad averne una al collo, eri tu. “Vivi ora, oggi: il domani non puoi conoscerlo” "Non fare troppi programmi: il futuro mica lo puoi sempre pianificare". Parlare di Europa, passare per Villa Fastiggi, Strasburgo e Baia
Flaminia non saranno più le stesse, per me, sapendo che tu non ci sei più. C’è
ancora da qualche parte una sveglia che suona per l’anniversario della tua
laurea e un plico di foto che ritraggono tutte le volte che abbiamo sgamato te
e socio biondo a dormire, stravolti dalla stanchezza. Stanotte secondo i Maya
doveva finire il mondo o almeno un’era: tu, un pezzo del mio, di mondo, te lo
sei portato via. Quello impacciato e ingenuo, quello che si ricorda con l’alone
rosa e con i colori saturi, degni dei migliori advertisement. “Sì, laureati
pure, poi tanto ce ne andiamo a festeggiare a Capo Horn, facciamo un paio di
figli e giriamo il mondo, che te ne pare come programma Fra?”. E forse, di me,
avevi già capito tutto. Dormi amico, serafico come ti ricordo io, ma ricorda,
anche di là, che certe promesse e certi sogni non finiscono qui.
mercoledì 23 maggio 2012
... Home sweet home?
Qual è quel posto che chiamiamo casa? Quello
in cui ci togliamo le scarpe o quello in cui c’è qualcosa, seppur minima, che
ci strappa un sorriso? Ed ha senso chiamarla ancora casa se ci lascia
totalmente indifferenti e lì ci vengono a trovare prevalentemente i ricordi? Il
momento di cambiare è quello in cui tocchi il fondo o quello in cui non riesci
più a sentire il tocco di nulla? L’altro giorno ad un amico ho chiesto se,
durante la sua giornata, avesse sorriso almeno una volta solo per se' stesso.
Senza che il sorriso fosse di circostanza, dovuto o forzato da agenti esterni.
Quale linea della vita può indicarci la linea di separazione tra quello che
dobbiamo alle convenzioni sociali e quanto dobbiamo alla nostra esistenza? Cosa
ci starà ad indicare il momento in cui bisognerà dire “alla malora il resto,
questo momento non ripasserà per essere vissuto, il momento di viverlo è adesso”?
E i progetti, le rinunce, servono a dare significato e continuità al senso di
vivere o la vita ce la stroncano e basta, logorandola a poco a poco ogni
giorno, con costanza? Quanto aggiungono? E quanto sottraggono, i progetti?
Seneca affermava che nessun vento è favorevole all’uomo che non sa verso quale
porto sia diretto. Vent’anni fa, oggi, uccidevano un grande uomo che per un
progetto ha sacrificato la sua vita. La notizia la ricordo ancora, non capivo
la gravità dell’accaduto, non avrei potuto, ero ancora troppo piccola. Ricordo,
tuttavia, esattamente, le reazioni di stupore e di sconforto che quella notizia
provocò sui volti dei miei genitori: da quelle compresi chiaramente che
qualcosa di grave fosse accaduto. Vent’anni dopo e un credito di riconoscenza
dopo per quell’uomo dal volto, nonostante tutto, gioviale, non posso non
domandarmi come si sia sentito lui. Conosceva esattamente il porto cui voleva
arrivare, tuttavia ha incontrato tante tempeste lungo il cammino ed una,
purtroppo, gli è stata fatale. Quello che mi chiedo, però, è se potesse ancora
chiamare casa quel posto che gli stava voltando le spalle, quella nazione che
lo stava abbandonando come oggi abbandona la mia generazione. Mentre aveva il
respiro controllato e la vita sorvegliata, quando ormai di una vita degna della
spontaneità connessa a questo nome non poteva più godere, in gabbia, c’erano
solo ricordi o anche lo sconforto, a tratti, si faceva strada negli angoli
reconditi della sua mente? Si sarà mai sentito in colpa per quella scelta di
carriera, trasformatasi poi in scelta di vita anche per i suoi cari, per aver scelto anche per loro? Ma soprattutto,
tu, Giovanni, fino all’ultimo, almeno una volta al giorno, sei riuscito a
sorridere solo per te stesso?
venerdì 18 maggio 2012
Il quaraqquaquesimo
Da che il mondo esiste le persone si sono sempre distribuite tra due grandi gruppi. Insomma da quando l'uomo ne abbia avuto memoria c'è chi fa e chi, purtroppo per lui, semplicemente parla. Questo equilibrio si mantiene più o meno stabile da secoli, tuttavia gli annali registrano, ahimè sempre più frequenti, casi di soggetti affetti da uno strano morbo: il quaraqquaraqquesimo. Il soggetto affetto da tale morbo, anticamente scoperto e prontamente nominato da un popolo geniale proveniente dalla Sicilia, colpisce prevalentemente soggetti che, a dispetto delle apparenze, godono di bassa autostima, alta immaturità e una buona dose di arroganza. Mescolate tutto con cura e avrete un chiaro esempio di quaraqquaquà. Se per tali malati fosse creato un apposito reparto come per qualunque altro tipo di malattia infettiva, il problema non sussisterebbe: si applicherebbero semplicemente le logiche del ghetto fino a completa guarigione evitando che i sintomi si diffondano per il pianeta. Il problema è che tale epidemia, paragonabile solo alla Sars e alla Peste Bubbonica, viene piuttosto percepita come un semplice raffreddore, sottovalutandone il potenziale pericolo, per cui agli affetti dal morbo è tranquillamente consentita la deambulazione e il contagio del prossimo. Il problema emerge proprio quando un esemplare affetto da quaraqquaquaquesimo viene a contatto con un sano. In tali casi la comunicazione è pressoché impossibile. Ogni logica umana decade e alla parola viene sostituito il puro istinto poiché l'unico modo per comunicare con un quaqquaraquà è cercare di stabilire un contatto simile a quello che si tenterebbe di instaurare con una scimmia. Affidarsi alla razionalità sarebbe una pura follia poiché il quaqquaraquà ragiona secondo logiche e sentimenti animali. Sì, secondo quelli che il Buddismo considera sentimenti 'volgari' come quanti dettati dalla fame, dagli ormoni, dalla paura. Date a un quaqquaraquà cibo, passera e un guscio e potrà quasi sembrare una persona sana. Il vero problema è che le persone sane con cui vengono in contatto i quaqquaraquà sono, appunto, sane ed in quanto tali NON ragionano secondo le logiche malsane dei quaqquaraquà . Però, per uno strano scherzo della vita, tali sani, potrebbero soffrire delle ripercussioni sulla propria esistenza per colpa del semplice momentaneo contatto con un quaqquaraquà . Di questi soggetti, personalmente, purtroppo, ne vedo sempre di più in giro. Non so se io abbia un radar, se ormai l'epidemia sia incontrollabile o se dove abito ce ne sia particolare concentrazione.Tuttavia deve essere una malattia assai antica se già Gioacchino Rossini nel suo Barbiere di Siviglia ne descriveva le controindicazioni. Magra consolazione per i sani è che, se "la calunnia è un venticello" è pur vero che, essendo questi dotati di intelligenza, a differenza dei quaraqquaquà, troveranno il modo di costruire un aquilone per volarci sopra quando la brezza diventerà tempesta.
martedì 15 maggio 2012
Io? Io voglio morì col dubbio...
“Chi non risica non rosica” “Lo que no corre se recorre” “Chi mangia fa briciole”. Questi solo alcuni dei luoghi comuni che mi sono stati rivolti nelle ultime due settimane. E non si sa perché, tali commenti avevano sempre e comunque un ‘non so che’ di riferimento e velato commento circa la mia condotta. Un modo carino per dire “sei una gentilissima scassamaroni ma ti vogliamo bene lo stesso. Insomma: prima o poi ti stancherai anche tu, ti placherai e tornerai nei ranghi”.
Io, invece, sono circa due settimane che mi
ripeto che “Voglio morì col dubbio”. Che cosa voglia dire “voglio morì col
dubbio”? Significa che realmente mi auguro di spirare con in gola, come un
colpo nella canna di una pistola, una domanda: le corde vocali che si muovono
cercando di sollevare l’ennesima, magari cazzata, o forse questione vitale.
Adesso qualcuno, di grazia, mi spieghi che
diamine ti rimane da vivere se sulla soglia dei trent’anni ti sei dato tutte le
risposte o ti sei appiattito a tutte le richieste del vivere comune.
La Mulino Bianco forse saprebbe rispondermi
ma temo sia meglio continui a fare i biscotti e a crescere famiglie nella
sterpaia, che, appunto, restano ‘miti’ e poco hanno a che fare con il reale.
Infatti, trovatemi un trentenne (esclusi piloti, calciatori, ereditieri e
narcotrafficanti. ndr.) che oggigiorno guadagni tanto da poter mantenere un
mulino, da aver figliato per quattro e
da potersene fregare del prezzo del gasolio per raggiungere la civiltà
dall’idillio. Ma, soprattutto, trovatemi un trentenne che, come sostiene un mio
caro consigliere, intrapresa l’ipotesi Mulino Bianco non trovi un
amico che, paratoglisi davanti, dica “Ma che sei pazzo??? Esci da questo corpo!!!”.
Adesso, posto che la famiglia Mulino Bianco
non esiste, posto che la generazione “Ultimo Bacio” sta dando i migliori frutti
della sua epoca, qualcuno mi dovrebbe spiegare: perché fingere risposte serie e
appiattirsi a crismi societari se poi si devono fare cazzate? Ma, soprattutto,
per quale motivo se nessuno, di fatto, in questo caro mondo, rispetta più i
crismi sociali, Muccino docet, perché le ragazze, però, sono rimaste sempre quelle povere sfigate per le quali, superata una certa soglia di età: o ti accasi o se non lo fai
-
o sei zoccola
-
o sei zitella
-
o entrambe
-
o qualche problema ce l’hai
Orologio biologico? Cazzate. Bisogno di
protezione? Cazzate. Sicurezza? Cazzate. La parola esatta è ABITUDINE. Ci si
abitua a piccoli rituali rassicuranti, allo stesso odore, alla smorfia che fa
chi ci sta accanto la mattina quando si sveglia. Ci si abitua a conoscere le
abitudini alimentari e comportamentali del nostro vicino, l’orario del
messaggio della buonanotte e la voce impostata che cercherà di mantenere al
telefono se sarà in sbornia. Ci si abitua. E lasciare l’abitudine fa paura: allora
questa fuga dall'incertezza, a un certo punto, meglio renderla legale.
Ma questo non è amore. Questa è comodità.
Questo il più delle volte non è un percorso: è un accontentarsi.
E ventisette anni sono troppo pochi per
accontentarsi.
Anche trenta lo sono.
Forse anche trentacinque.
Le persone, però, sempre più spesso si
accontentano, si abituano e poi sbattono la capoccia per la prima cosa diversa
che gli passa sotto al naso.
Allora non domandatevi il perché della
crescita esponenziale dei divorzi in Italia.
Qualcuno mi ha lasciato un’immagine stupenda,
spero non me ne voglia, ma la riporto anche a voi. Un rapporto d’amore è come
vedere le scie di due moto che salgono su una collina percorrendo delle curve.
I due piloti sanno solamente che sono abbastanza vicini da sentirsi ma
abbastanza lontani da non danneggiarsi. Le persone che stanno a valle, però,
possono esattamente vederli in parallelo che salgono. Non c’è uno dei due
troppo avanti, non c’è uno che sta dietro, salgono in parallelo superando le
curve.
Attorno a me vedo molti attori di biscotti e
pochi piloti. I piloti si riconoscono lontano un miglio, hanno la luce negli
occhi, la calma nella voce, la sicurezza di chi sa che qualora dovesse cadere
in pochi secondi qualcun altro si fermerà, abbasserà il cavalletto e arriverà a
soccorrerli. Probabilmente, anche in mezzo alle lacrime di dolore e allo
spavento, troveranno il modo e la forza per ridere. Gli attori, invece, sono
nervosi, insicuri e temono l’abbandono. Si nascondono se sbagliano e piuttosto
che mostrare un proprio errore scappano, o peggio, negano. Le loro litigate saranno
epiche, la luce del loro legame brucerà veloce come un fuoco d’artificio in una
vasca di ghiaccio per lo champagne.
Quindi, a chi da oggi in poi mi farà domande
sulla mia vita, risponderò che “voglio morì col dubbio”. Fosse anche il dubbio
supremo di tutti gli innamorati, quel ‘ma tu, mi ami?’ perché vorrà dire che
per una vita ho cercato e mi sono circondata di persone in grado di darmi
risposte, magari farmi domande, ma di certo persone in grado di non a farmi
spegnere a tal punto da non aver domande da fare e risate da non respirare.
Io? Io “voglio morì col dubbio”.
domenica 22 gennaio 2012
Waiting on a shadow to go...
" Non sono buona ad aspettare. Aspettare senza sapere è stata la più
grande incapacità della mia vita. Nell’attesa ho avuto lo spazio per
costruire enormi impalcature di significato, e dieci minuti dopo farle
crollare, per mia stessa mano. Poi riprendere da un punto qualunque,
correggere il tiro di qualche centimetro per rendere la costruzione
immaginata più solida. Vederla crollare di nuovo. […] Io non so
aspettare e non voglio farlo, nell’attesa i mostri prendono forma e si
ingigantiscono, mangiano le ore per crescere e mangiarmi."
(Valeria Parrella, Lo spazio bianco)
(Valeria Parrella, Lo spazio bianco)
Tutti da bambini abbiamo paura del buio, del mostro sotto al letto che venga a portarci via dagli affetti. Poi iniziamo a temere i temporali, perchè in quel momento c'è troppa luce, tutto è così maestoso, gigante, imponente... e noi ci sentiamo troppo piccoli e troppo nudi per spiegarci quell'immensità. Quando diventiamo grandi, infine, forse a spaventarci sono le ombre. Più o meno piccoli spazi bui che vivono al limite contingente della nostra quotidianità, della luce, del familiare. Ombre che, gomito a gomito con la sveglia sul comodino, quella luce e quella familiarità ce la possono strappare via senza lasciarci nemmeno il tempo per rendercene conto. Sono angoli d'oscurità che hanno la cadenza di un rubinetto che perde e la forza di un fiume che scorre. Lente, inesorabili, si depositano nei nostri segreti più incoffesabili e lì maturano e s'ingigantiscono come una colonia di batteri. Qualcuno un giorno mi disse che "è solo guardando fisso nell'ombra che un occhio riacquista la vista". Ma non raccontò nulla del passaggio traumatico tra la luce e l'ombra, di quell'istante in cui visioni apocalittiche e confuse si presentano davanti agli occhi: farfalle, pulviscoli che si librano nell'aria e piccoli vermi che sembrano volare, il tutto condito da una sensazione che sembra trafiggerti il cervello. Di tutto questo mi aveva già raccontato la Vita. Forse, ancora una volta, è solo quello che chiamano "crescere" e "andare avanti" e poi, del resto, citando un celebre libro, non si dice forse che se si vogliono vedere le farfalle, che dicono essere così belle, si debbano sopportare prima i bruchi?
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