"fino a che non va a segno è tutto da giocare"

giovedì 21 febbraio 2013

Siamo proprio una generazione di disadattati...

Poi realizzi che non sai da dove cominciare, o meglio, lo sai perfettamente ma la messa in pratica è tutt’altra cosa: dovresti partire da te. Massimo Troisi diceva “Ricomincio da tre” perché due punti fissi nella vita li aveva: io devo fare una ricognizione dei miei. E poi ricominciare, guardare avanti, cercando di aver rispetto per i ponti che hai attraversato dietro di te, anche se a volte è impresa ardua.
Nel mezzo del Kaos, in cerca del Kosmos, in quel pandemonio che si chiama vita, come molti, forse come tutti, alla ricerca di me.
Solo che quando ti rendi conto degli errori di calcolo, forse, la storia diventa più complessa. La vita ha davvero a che fare con i propri equilibri, oppure è giusto sbilanciarsi e fidarsi del prossimo mettendoli in discussione in nome della condivisione?
E quando vedi che quello che stai percorrendo è una strada in discesa verso un burrone, quanto devi assaporare l’adrenalina e la vertigine prima di fermarti e tornare indietro?
Ma, soprattutto, perché quando ti sembra di essere lontano dal pericolo può capitare di sentirti come affetto dalla “Sindrome di Stoccolma”? Certe situazioni e certe persone sono bravissime a fomentarla…
E in tutto questo la morale? Perché rompi il cazzo sulla politica e sul qualunquismo, sulla mancanza d’iniziativa se la persona che ti vive accanto, e che tu definisci tuo amico, sputa a bocca piena sulla terra dei tuoi padri e tu non dici nulla, anzi, lo assecondi?
Crediamo davvero che “il vivi e lascia vivere” conservi in sé meno colpe di chi brandisce un’arma e compie una strage? Credo che il tempo dei silenzi “costruttivi” sia finito, nella nostra comunicazione 2.0 politically correct siamo già abbastanza zitti e nell’angolo.
L’altro giorno una mia amica mi ha riportato una frase illuminante “Ieri ti mettevano incinta, oggi ti mettono in Copia Conoscenza”. Verissimo. Concordo con lei. Siamo una generazione di disadattati, di handicappati sentimentali, di gente che, attaccata alle tastiere e ai cellulari - mi metto in prima fila – crede di mostrare i denti e gli attributi: invece finisce per dimostrare solo ignavia, poco carattere e un’insicurezza al limite del patologico.
Tanto meglio allora quando la politica era fatta in piazza, quando per un litigio ci si prendeva a cazzottate, quando addio ce lo si diceva con una bella litigata e magari qualche sberla volante, piuttosto che con frasi sterili come “siamo culturalmente incompatibili”. Meglio quando se eri contadino eri chiamato “cafone” e se eri signore lo eri per nascita, invece di sparare “supercazzole” sul “sogno americano” sulla “meritocrazia” sul “studia e impeganti che poi arrivi in alto”: per chi non se ne fosse accorto le lobby esistono ancora, non sono mai scomparse ed hanno solo cambiato costume. Ora si addobbano da proletarie ma si puliscono le mani con l’amuchina dopo averle strette a coloro che ritengono “inferiori”.
Al tempo di Cesare al popolo davano pane e giochi: ora ci danno un nuovo modello di tablet al mese, quattro stagioni della moda, una decina di reality per farci i fatti di casa altrui – così non vediamo quelli di casa nostra – un consulto con lo psicologo di turno, uno con lo stylist – così ci teniamo su col morale e facciamo girare l’economia – e 1 giga di traffico dati in comodissime rate triennali per commentare più comodamente tutto il fumo che ci hanno messo negli occhi.
E noi? Noi a testa bassa abbiamo imparato che eravamo sempre i più piccoli, la generazione X, che da noi non ci si poteva aspettare nulla (quindi perché mai contraddire le attese?) che l’unica soluzione era andare all’estero, in un “altrove” mostrando, per l’ennesima volta, la scarsità di coglioni per affrontare il mondo e lottare per quello che c’è da fare qui.
Noi abbiamo dimenticato come si dice “ti amo” provandolo, come una sana rissa tra amici potrebbe evitare i cervelli bruciati per la solitudine, come i comportamenti piccolo-borghesi e politicamente corretti non portino ad altro se non ad accumuli di rabbie e frustrazioni.
Io, personalmente non vorrei lasciare ai miei figli, se mai ne avrò, un mondo per cui debbano vergognarsi di me, per questo, sebbene l’idea di emigrare a volte sia morbida e avvolgente come un maglione di cachemire, poi rimango qui.
Al liceo mi rimase in mente questa poesia: Itaca è qui. La carne, il sangue, la passione sono in noi. E a chi mi dice che sono nervosa, adrenalinica, impaziente non posso che rispondere che questo è il mio viaggio e che Ulisse, in fin dei conti, non si è mai fermato.

ITACA
Quando inizierai il tuo viaggio verso Itaca,
prega che la strada sia lunga,
ricca di avventure, ricca di conoscenza.
Lestrigoni e Ciclopi,
Poseidone furioso – non averne timore:
non ne incontrerai mai sul tuo cammino,
se i tuoi pensieri rimarranno alti, se una gentile
emozione accarezzerà il tuo spirito e il tuo corpo.
Lestrigoni e Ciclopi,
Poseidone selvaggio, non li incontrerai mai
se già non li porti dentro la tua anima,
se l’anima non li frapporrà ai tuoi passi.
Prega che la strada sia lunga.
Che le mattine d’estate siano molte, quando
con grande piacere, con grande gioia,
entrerai per la prima volta in porti mai visti;
fermati ai mercati fenici,
compra le merci migliori,
di madreperla e corallo, ambra ed avorio,
caldi profumi di ogni genere -
profumi caldi quanti ne puoi portare.
Visita molte città egizie,
per imparare ancora ed ancora dai sapienti.
Tieni sempre Itaca a mente:
raggiungerla è il tuo ultimo scopo.
Non affrettare però minimamente il viaggio,
meglio lasciarlo durare molti anni;
attraccare alfine all’isola quando sarai vecchio,
ricco di tutto ciò che avrai raccolto per strada,
senza pretendere che Itaca ti offra altri tesori.
Itaca ti ha donato il Viaggio meraviglioso.
Senza di lei tu non saresti mai partito per la tua via.
Essa non ha null’altro da offrirti.
Se la troverai povera, non credere che Itaca t’abbia ingannato.
Saggio come sei diventato, con sì tanta esperienza,
avrai già compreso cos’Itaca realmente rappresenti.