"fino a che non va a segno è tutto da giocare"

domenica 21 agosto 2011

Back to the waves...

Tornare alle onde, a quell’universo apparentemente banale e tanto unico che può comprendere solo chi lo abbia vissuto. Tornare a quel vento freddo che ti entra dritto nel collo, provocandoti un brivido che attraversa la schiena e ti fa sentire vivo. Tornare a quell’Oceano tanto immenso che ha la voce della coscienza, del te più profondo, a cui proprio non puoi mentire. Tornare a stare seduto su un minuscolo pezzo di resina nel mezzo di una potenza, sentire quella forza e la tua nullità, guardando un fondale cieco che fa tanta più paura quanto più complicato è il tuo Es.
Tornare ad aprire una porta a perfetti sconosciuti con la voglia e il presentimento che, ben presto, saranno la tua famiglia, o almeno una parte irremovibile e indimenticabile della tua vita. Quel tipo di persone delle cui storie, dei cui insegnamenti, racconterai ai tuoi nipoti. Lasciare a casa tutto: lavoro, preoccupazioni e apparenze, per approdare, poi, in un posto sospeso nel tempo, in cui non ricordi giorni ed ore se non quando il tempo, inesorabile, viene a chiedere il conto per la partenza.
Capire che le chiacchere che solitamente ti circondano, il “chi sei” “cosa fai” e più o meno direttamente il “cos’hai”, bhè, sotto l’ala protettrice di quel vento umido, non servono a nulla. E non interessa nemmeno di esser magri o grassi, con la manicure perfetta o con la muta più “figa” perché quello che sei lo dimostri in un sorriso e nel coraggio di affrontare quell’immensità. Tutt’insieme ma al contempo ognuno per sé.
Perché quando fai surf non stai solo praticando uno sport, stai imparando come maneggiare la tua vita. E l’Oceano te lo insegna subito. Non ti fa sconti, non è delicato, non ti aspetta, ma, ben presto, ti ritrovi a parlare con lui come si fa con un amico: con il tuo migliore amico.
Allora comprendi come un passo in più possa significare uno schiaffo in faccia da un’onda che s’infrange, come a volte, certe onde, siano più grandi di te e allora sia necessario puntare i piedi per non indietreggiare, come altre volte, quelle stesse onde, ti possano passare sopra senza recarti danno, mentre altre volte ancora richiedano apnea e mani in testa, per pararti da quello che credevi il tuo appiglio più solido: la tua tavola. Spesso, però, capita anche che l’unica cosa che rimanga da fare sia sedersi nel mezzo di quella distesa d’acqua, sentire il freddo di quel vento gelido che ti attraversa la schiena, la pelle d’oca, i muscoli che si contraggono e... aspettare. Aspettare l’onda perfetta o almeno la migliore della giornata. Senza dubbio, quella che ti consenta di stare in equilibrio sulla tua tavola da surf o, molto più probabilmente, solo sulla tavola della tua vita.

mercoledì 3 agosto 2011

Depende: y tu da què dependes?

Certe situazioni sono come la prima sigaretta. La si fuma senza un vero motivo, al massimo sull’onda di un attacco d’incoscienza, o per dimostrare, fatalmente, qualcosa al mondo o ai prossimi. Lo si fa per ripicca o per ribellione, alcuni lo fanno perché si annoiano, altri per sentirsi “fighi”. Taluni per sfidare il pericolo, altri per caderci, da coglioni, per tutta una vita. La prima boccata di sigaretta fa schifo. Tuttavia 90 su 100 la si proverà di nuovo poiché, se tante persone lo fanno, la “figata” sarà da qualche parte e qualcosa nelle “istruzioni” deve essere andato storto. Insomma basta applicarsi e “la figata” arriverà. Lo stesso accade con le relazioni, soprattutto di natura amorosa. Tutti raccontano che l’amore è una cosa meravigliosa e terribile allo stesso tempo, che ti rincoglionisce ma ti rende felice, che se sei innamorato sei più bello, che se, invece, hai il cuore a pezzi sei come il tizio della pubblicità progresso anni 90’ con l’alone viola attorno: sei uno sfigato repellente.
La prima sigaretta è calda e avvolgente, ha il brivido dell’adrenalina e la paura di essere scoperti ma la frenesia della trasgressione. È impacciata, insicura e sbruffona: il tutto allo stesso tempo. È far finta di avere sotto controllo la situazione e sé stessi.
Per favore, trovatemi le differenze con un primo appuntamento, di grazia.
Quando fumi la prima sigaretta non sai quanto ti possa far male, quanto giorno dopo giorno ti possa uccidere, quanto ti possa ingiallire i denti, peggiorare l’alito, mutare le abitudini caratteriali, impregnare la pelle tra l’indice e il medio. Oppure lo sai. Ma lo ignori. Quando sorridi e ti senti leggero e appealing, però, non sai nemmeno quanto ti possa far male quell’appuntamento per cui sul momento provi adrenalina, insicurezza, frenesia. Non sai quanto quel prossimo, in quel momento ancora un estraneo, potrebbe diventare familiare, entrando nella tua vita e cambiandoti colore, atteggiamento, sensazioni e piani. Del resto ci si stava uscendo magari senza un vero motivo, in preda ad un attacco d’incoscienza o al massimo per dimostrare qualcosa al mondo o a noi stessi, no?
La prima sigaretta, il più delle volte, finisce in un attimo e ti lascia il vizio per tutta la vita. E quella sensazione del primo appuntamento… quella in quanto tempo brucia, il più delle volte?

Il tango del piccolo chimico...

La razionalità è un’arte e la fiducia un dono… e le relazioni che durano sono per le persone che sanno aspettarsi. Sapete, alla fine della giornata c’è quasi sempre un momento in cui tutte le parole, frasi, espressioni e gesti che mi hanno colpito ritornano in mente, salgono a galla. Come se il mio cervello fosse un ruminante, oppure un boa che inghiotte la vita e dopo la rimastica a piccoli morsi. Oggi la frase che mi è tornata in mente è stata una considerazione, che non pensavo nemmeno potesse partorire in maniera così lucida il mio cervello: “Le relazioni con gli altri sono come passi di tango, in cui un tempo sbagliato porta ad un piede pestato. Si deve guardare negli occhi l’altro ballerino, poiché il tango ballato male assomiglia al pogare ma ballato bene è come se si levitasse sul terreno”. Incredibile quali illuminazioni possano giungere dal glucosio attaccato allo stecco legnoso di un gelato confezionato, no?
Ferma, lì, in quel momento di lucidità il mondo e le mie stesse contraddizioni (chi non ne ha?) mi apparivano così esilaranti. Il mondo. Un immenso ammasso di formichine con problemi futili che si agitano per una vita e corrono e si scuotono e s’impegnano alla ricerca di qualcosa che qualcuno, una volta (mannaggia sua!) ha chiamato “felicità”.
Allora spendiamo tempo a valutare, a pensare e a calcolare cose e situazioni cui poco tempo dopo ci riferiremo come “Di cos’è che si trattava?” oppure “Com’era quella storia? Com’è che era andata? Aspe’ che non ricordo”. Oppure abbiamo la reazione inversa: trasformiamo in mito circostanze irrilevanti e persone che sono delle emerite nullità. Dicono sia l’affetto e la gioventù. Io credo siano le illusioni che, tanto più crescendo, vogliamo darci. Quei sogni che non fanno svegliare e che lasciamo al nostro cervello per convincerci, con tutti noi stessi, che qualcosa di positivo ci sia dopo il lavoro, la guerra, il deficit (ma qualcuno, di grazia, mi sa spiegare dove sia il credito? Qualcuno deve pur averlo, perdinci!) i folli fondamentalisti che pianificano carneficine, il comportamento lunatico del genere umano, il traffico e l’addebito per commissione sulla carta di credito o sul bollettino postale.
E allora si aspetta e si corre, si parte e ci si ferma, si sorride quando invece si vorrebbero dare le testate e scuotere le persone declamando “Esci da questo corpo! Che cazzo dici?!?”. Sì, parlo proprio di quelle persone che non sanno fare una cosa e ti dicono che sei una schiappa, che non ne hanno idea e vogliono fare i maestri, che hanno una crisi esistenziale e dicono che sei tu quello confuso, di quelle che non parlano e cercano di convincerti che sei tu quello con problemi di comunicazione, di quelle che sono immature e coglione e sei tu quello serioso. Insomma di quelle che tolleri perché “siamo in tanti su questo pianeta, in qualche modo si dovrà pur fare” perché “il mondo è bello perché è vario” perché “la mosca bianca è sempre un paragone” o perché da bambino non t’hanno regalato il piccolo chimico allora da grande fai esperimenti sociali.
Alla fine di questo circo, poi, con calma, con difficoltà, c’è un momento in cui ci si placa, si viene a compromessi col mondo, si smette di agitarsi e di fuggire: magari ci si siede e si cercano alibi o conferme. Due secondi dopo, consapevolmente o inconsapevolmente, si ricerca nuovamente la felicità… sta’ stronza! Che poi, esisterà davvero oppure è come la leggenda di Billy Barattolo e Paul Mc Cartney?