"fino a che non va a segno è tutto da giocare"

mercoledì 1 maggio 2013

Pantha Rei



E poi ritrovarsi ancora qui. Ancora così. Una valigia per terra, lavatrici da fare, biglietti nelle tasche, ricevute e ancora quella sensazione. Quella che per la prima volta hai provato a quattordici anni, che ancora, di tanto in tanto, non t’abbandona. Quella per cui tuo fratello ti regalò un cd, che citava così “Se hai bisogno di fuggire da un paese con 20.000 abitanti, vuol dire che cerchi di fuggire da te stesso. E da te stesso non fuggi nemmeno se sei Eddie Mercks”.
È quel dolore sordo che si prova al distacco della pellicina dall’unghia, non si vede, in compenso si sente benissimo, qualunque cosa si sfiori.
Allora negli occhi ancora il mare, sulle papille il gusto vellutato dello yogurth e tra i capelli l’odore del pino e degli alberi in fiore misto a quello delle spezie. E nella mente realizzare che quanto volevi lasciare in giro continua, in qualche modo, a seguirti come un’ombra. Come un qualcosa di appuntito che è rimasto incastrato tra le scapole, che continua ad augurarti buongiorno e buonanotte. Compagno di viaggio anche davanti a quelle colonne antiche, quelle, che, per il solo fatto di esistere ed essere resistite, sono una Sinfonia alla vita. Camminare realizzando che su quelle stesse pietre grandi filosofi e uomini e storie e offerte agli dei son passate. Sentirsi una formica con un peso profondo e straziante ma, dal basso di quei pavimenti levigati, assolutamente irrilevante. Quante cose hanno visto quelle colline? Quante persone scalze, con sandali, con scarpe diverse, in base alle mode del momento, avranno camminato sulle stesse pietre in compagnia del medesimo peso?
E poi, quando lo sguardo si rabbuiava, trovarti nel mezzo di un Gineceo, che esiste davvero, non è solo nei libri di Storia antica. E capire quanto, scioccamente, hanno perso i popoli occidentali in nome del progresso. Donne che in un’altra lingua apportavano parole e aneddoti, come balsami, a lenire l’anima e abbracci, a cercare di riscaldare il cuore. Tornare a casa con un biglietto d’aereo, una relazione consolidata con lo Tzatzichi, un bagaglio d’amore, un po’ di paura per il futuro e una frase, di un’anziana saggia “Ricorda, piccina, che la qualità di una relazione si vede dalla qualità della separazione”. Uscire di casa e ritrovarti per caso lì, incapace di curarti del mio peso, scoprire che la tua opera di ostracismo continua e risentire nelle orecchie l’altro aforismo, quello di una giovane saggia “Peggio di un uomo stronzo, c’è solo un uomo ragazzino che, forse, non sarà mai capace di diventare un uomo”. Sentirsi il cuore liofilizzato. Poi ringraziare la Vita perché, quando, quel liofilizzato, stai per spazzarlo via credendo sia, ormai, lui polvere inutile e tu una completa idiota rincoglionita, in quel momento, Lei, ti manda qualcuno con la colla e un abbraccio. E sì, non ci capirai un cazzo, non ti farai mai i fatti tuoi in nome del "vivi e lascia vivere" e crederai, scioccamente, ancora di poter cambiare il mondo partendo dai singoli ma, in fin dei conti, certe circostanze, a sprazzi, sembrano suggerire che tra te e Gengis Khan, ancora un po’ di spazio, c’è.