"fino a che non va a segno è tutto da giocare"

giovedì 23 dicembre 2010

Libretto di istruzioni e garanzia alle volte sarebbero importanti...


Tutti quanti, salvo problemi peggiori in età successive, almeno una volta nella vita ci siamo rivolti ai nostri genitori dicendo “Io non diventerò mai come te”.  Curioso e frequente è poi elogiarli davanti a terzi estranei, anche solo due minuti dopo, affermando che quel genitore, come il quale non avremmo voluto diventare, è in realtà il nostro modello di vita: un po’ il maestro Yoda della situazione a pari merito con i nonni, per chi abbia avuto la fortuna di incontrarli.
Non si scappa, ne parlò per primo Freud, poi, avendone pensate troppe, lasciò temporaneamente da parte l’elucubrazione mentale, prontamente ripresa da un bell’uomo, un po’ crucco, svizzero, che ci piazzò sopra la bella etichetta “Complesso”, qualche fiocchettino quà e la' e... voilà: bollata, cotta, pronta ad essere consegnata ai tormenti notturni di qualche inesperto genitore. Carl Gustav Jung. Un nome che oscilla dal crucco all’orientale. Prendetevela con lui o più probabilmente con la sua prole, ammesso e non concesso che ne abbia avuta e che sia riuscita a superare il “complesso” tanto studiato dal padre.
La cosa sorprendente è che, secondo tutti questi eruditi pensatori, noi, tutti, per il bene della nostra sfera mentale e sessuale, il complesso lo dovremmo superare entro i sei anni circa. E non ci sono rimandati a settembre. Se non passi quel dannato esame sono solo ed esclusivamente fatti tuoi per tutta la vita. Un esame del complesso di Edipo è per sempre. Ma adesso, allora, qualcuno sarebbe tanto gentile da spiegarmi dove fosse l'esaminatore per quell’ammasso di uomini e donne sulla cinquantina che litigano sotto le feste per festeggiare a casa di un genitore o dell’altro? E tutti quelli che litigano per le suocere? Non è forse Edipo che dopo secoli viene ancora a rompere gli spilloni a qualcun altro?
Nonostante le ribellioni, le proteste, le parole, le delusioni, gli attriti, tutti quanti, nessuno escluso, amiamo i nostri genitori. Può sembrare una tautologia o la classica frase da buonismo scontato, ma credo che analizzandola abbia un senso. Se non impari ad amare loro non puoi amare te stesso e qualora un giorno dovessi avere dei figli non potrai amarli, perché arriverai ad un punto del domino e ti mancherà una tessera. “Io non sarò mai come te”. “Io non commetterò mai i tuoi stessi errori”. Poi ti accorgi che quel codice di serie con cui sei venuto al mondo, quel DNA, su più bello è in vantaggio. Trascorri la tua vita ad analizzare le tue mosse, come se fosse la finale di un torneo di scacchi, poi basta un parente che per analogia mentale ti paragona ad un genitore e sei al punto di partenza mentre pensi “Non è vero si è sbagliato… Cazzo!”. E in quell’esclamazione c’è tutta la consapevolezza che, per quante esperienze tu possa fare, per quanto lontano tu possa andare, per quanto tu ti possa applicare a non commettere gli stessi errori, a cambiare i lati del carattere che dei tuoi genitori non ti piacciono… per quanto tu possa, sei e rimani un loro prodotto. Hai il loro numero di serie. Perché loro sono la prima cosa che hai visto al mondo, perché il mondo lo hai sentito attraverso i loro organi, perché per quanto evoluti restiamo animali. Nel momento in cui realizzi questo ti senti una bestiola del circo in una gabbia di acciaio. Un grande elefante per il quale hanno già segnato, passo più passo meno, il percorso da seguire sotto il tendone. Ed impieghi il tempo a cercare la chiave per evadere, la soluzione di questo cubo di Rubik. E non esiste. Consolati sapendo che branchi di elefanti prima di te hanno percorso la stessa pista ed hanno cercato la stessa chiave senza trovarla: ma se vuoi puoi essere più bravo, tu puoi fare una piroetta ed essere ricordato rispetto agli elefanti che ti hanno preceduto. That’s it. Se il mondo ci avesse voluti diversi ci avrebbe fatto nascere come le tartarughe.

martedì 21 dicembre 2010

Illuminazioni odontoiatriche tra il caricatore ed i calzini.

Fuori il ghiaccio, qui le luci made in PRC che riescono comunque a dare l’atmosfera che qualcosa è cambiato da qualche settimana fa’. Valigie aperte e appunti sparsi su post-it sembrano essere stati rigurgitati dalle mattonelle del pavimento. Se non si trattasse di una partenza sarei propensa a pensare ad un’esplosione atomica davanti a questo scenario. Mentre John canta nelle mie orecchie alternandosi a Ben i miei pensieri decidono di fare ricreazione, ostinandosi ad allontanarsi dalla concentrazione cui dovrebbero applicarsi: almeno per evitarmi l’imbarazzo all’aereoporto di dover comunicare a mia madre che, avendo una figlia rincoglionita, dovrà acquistare l’ennesimo spazzolino che ingrasserà la collezione degli spazzolini “Christmas limted edition”. Durano le vacanze di Natale e, puntualmente, l’anno successivo nessuno ne ricorda la paternità: relegati sotto l’etichetta “no man land” diventano colorato arredamento del bagno o al massimo strumento per estemporanei attacchi di arte di qualche nipote. I bagagli sono il momento che più detesto delle partenze. Incominci a farli sapendo sempre che, per quanto ti possa applicare, qualcosa sarà dimenticato a casa. Per certo avrai portato tutto il superfluo: ma puoi scommetterci il biglietto di viaggio che qualcosa di assolutamente essenziale e banale l’hai dimenticata a casa. Non per forza si deve trattare di qualcosa di materiale. Talvolta può anche trattarsi della mente, del buon umore che le persone all’aeroporto si aspettano da te o, più semplicemente, della voglia di prendere con il mood giusto il viaggio. Ultimamente io mi sono specializzata nei pensieri lasciati in sospeso. È come se, chiudendo il portone di casa, lasciassi dei panni appesi che sono qui ad accogliermi al mio ritorno, esattamente uguali a come li ho lasciati, magari solo un pò impolverati. Qualcosa a metà tra un fantasma e un salvadanaio. Però mi guastano terribilmente l’umore. Adoro viaggiare ma ritrovarli lì al mio ritorno svilisce il viaggio. Qualunque viaggio presupporrebbe una crescita, un miglioramento, un cambiamento. Ritrovare certi pensieri ancora appesi riaprendo la porta di casa fa sì che alcuni viaggi si mascherino da fuga: e che qualcosa svilisca o discrediti il viaggiare mi manda in bestia. Stasera, chiudendo le valigie, il pensiero è andato a quei miei amici che le valigie non le chiudono più, ma che ovunque io vada porto sempre nella mia. Anche se si tratta semplicemente di un beauty case. Solo in quel momento forse ho davvero realizzato quella cosa banale, eppure strettamente essenziale, che dimenticavo a casa. Al diavolo il limite di peso in aereoporto. Che si arrangi il controllo dei liquidi. E con lui la gabbietta infernale in cui inserire il bagaglio a mano. Facciano come gli pare anche le macchinette self-ticket. L’unica cosa che mi serve è proprio quello spazzolino che ogni anno dimentico a casa. E che dimenticherò sicuramente anche quest’anno. Quello che mi serve è proprio arrivare all’aereoporto, vedere la faccia sorridente e rassegnata di mia madre alla notizia ed andare a comprarlo in quel piccolo negozio sopravvissuto alla GDO, dallo stesso commesso, ogni anno più vecchio, facendo scegliere il colore a mio nipote, ogni anno più grande. L’essenziale è la meta e le emozioni che si provano nel cercare di raggiungerla. Magari quest’anno dimentico tutto il resto ma mi ricordo di essere una viaggiatrice.

Ps: Resti chiaro che... se mi toccano il bagaglio… scatta la class action...

mercoledì 15 dicembre 2010

Invisibile eppur mortale...

Certi avvenimenti, certe persone, certe dinamiche sono sempre più convinta che siano come i virus. Si insinuano, sottili, invadono, impestano e abbandonano il campo solo dopo aver distrutto tutto. E tanto più sono silenziosi e tanto più pericolosi sono, più dolorosi, più devastanti. Il problema dell’uomo contemporaneo, tra i mille che gli appartengono, è che teme solo le cose grandi. Pensa a suo modo di essere immortale, invincibile, il più furbo o semplicemente “il più”, quello cui tutto è dovuto e cui nulla può capitare, tralasciando dalla memoria che anche i dinosauri si sono estinti. Davanti a taluni atteggiamenti della società mi vengono in mente le profezie dei Maya che, a differenza di come molti pensano, non predicono la fine del mondo ma semplicemente la data del cambiamento, quella davanti alla quale l’uomo sarà dotato di libero arbitrio e dovrà scegliere la direzione da seguire posto davanti a un bivio. Ma non vi preoccupate, continuando a percorrere questo sentiero daremo grandi soddisfazione ai catastrofisti: fine del mondo, perché, come sempre, l’alternativa al cambiamento che comporterebbe uno sforzo non l’abbiamo nemmeno presa in considerazione. Alteriamo il nostro habitat, priviamo i popoli del necessario per soddisfare i bisogni primari e ci neghiamo la cultura per comprendere cosa ci circonda e per essere in grado di comunicare. Il virus è invisibile all’occhio umano, eppure è mortale per molti esseri viventi. Senza i batteri tutti gli ecosistemi si smantellerebbero nell’arco di poco tempo. Ma dell’uomo, sì dell’uomo, nessuno sentirebbe la mancanza.

giovedì 9 dicembre 2010

So I start a revolution from my field…

Ora più ora meno trent’anni fa' un uomo con disturbi della personalità uccideva John Lennon. Una persona la cui ossessione più grande era quella di diventare “qualcuno”. Lo asseriva anche una mia insegnante delle scuole medie “Ragazzi per passare alla storia ci sono due vie: fare il bene in maniera grandiosa oppure fare tanto male”.
Stamattina ho letto da qualche parte che le leggende non muoiono mai. Purtroppo i loro sogni sì però. E anche i loro messaggi. Tutti elementi che rischiano di morire lentamente a differenza della memoria di chi li ha elaborati.
In piena rivoluzione sessuale, lui, Lennon, quando tutti se la facevano con tutti e se non lo facevi eri uno sfigato -per intenderci- fece ricordare che tutte le storie d’amore hanno quel sapore edipico che le fa cominciare da un desiderio: “Voglio stringerti la mano”. Sì, quello stesso desiderio che provi a due anni per tua madre. Il primo atto d’amore. Di rassicurazione. Di consolazione.
Io trent’anni dopo sono qui a sentir parlare ancora dell’omicidio di John Lennon, ringraziando mio padre per avermi cresciuta a chilometri in auto e Beatles, mio fratello per avermi messo in mano a quattordici anni una copia del romanzo di Salinger (con le dovute raccomandazioni) e chiedendomi, come le generazioni che mi hanno preceduto: Perché? Ma soprattutto: what if? Se si fosse verificato oggi, sarebbe andata allo stesso modo? Credo peggio.
Perché se per parlare di rivoluzione parliamo ancora di trent’anni fa allora, forse, qualche problema lo abbiamo. Perché se una ragazza è troia e un ragazzo è ancora un latin lover, quella rivoluzione partita dal letto forse ha toppato da qualche parte e ancora perde. Perché se quell’India dove loro andarono per cercare ispirazione si rivela più civile, acculturata ed economicamente forte di noi che con arroganza ci definiamo da secoli, in maniera più o meno diretta, “il popolo eletto” allora qualche domanda ce la dobbiamo fare. Perché se i cambiamenti d'opinione, le battute d’arresto, la curiosità fuori dagli schemi, in questo continente, sono ancora considerati una colpa e non una risorsa, qualcosa non va’. Perché se qualcuno deve ancora decidere come si dovrà svolgere quella rivoluzione dal letto, dettandone le modalità, mentre donne e uomini avanti nell’età, rifatti di botulino, con evidenti problemi di accettazione del trascorrere del tempo, agghindati come un personaggio di Pirandello, devono dettare cosa dobbiamo indossare, dove dobbiamo andare e come ci dobbiamo atteggiare per essere degli “insight”, come se fossimo ad un corso di economia domestica, se tutto questo accade, allora è evidente qualcosa si è rotto nella macchina generazionale.
Siamo tutti consapevoli che non sia facile cambiare, forse è per questo che lui incitava ad immaginare, perché se chiudi gli occhi, non vedi, ma riesci a sentire il mondo più vicino, forse non vedrai l’alba, ma almeno percepirai il respiro del tuo vicino.
So I start a revolution from my field, perché il letto ha fallito…

domenica 5 dicembre 2010

E' come un vaso...

Ci sono cose che fanno rumore e ce ne sono altre che semplicemente nella loro immobilità, nel loro silenzio, si fanno apprezzare. Entrano giorno dopo giorno nella vita, diventano parte di un quadro che siamo abituati a vedere, sempre così, sempre immobile eppure ogni giorno diverso. Ci danno la sensazione che qualunque cosa accada saranno lì, per sempre, perché anche quando abbiamo pensato di cambiarle poi, inevitabilmente, siamo tornati indietro… perché senza quell’elemento nulla sarebbe stato lo stesso. E’ come il vaso orrendo, regalo di nozze dei nostri genitori, sempre lì sul tavolino vicino al telefono. Nessuno si ricorda chi ce l’abbia messo lì e perché nonostante tutti i suoi difetti rimanga in vista: sappiamo solo che da quando siamo bambini ricordiamo di averlo visto lì. Mille volte abbiamo sfiorato la sua superficie fredda prendendo le chiavi, oppure lo abbiamo sollevato per usarlo come fermacarte, a volte abbiamo anche creduto che stesse per cadere, altre volte sapevamo benissimo dove fosse ma non lo vedevamo… era un’entità astratta di riferimento: "Dove lo trovo?" "Lì accanto al vaso". Forse troppe volte gli siamo passati accanto senza rendercene conto e quando la nostra attenzione si è poggiata su di lui, allora ce ne siamo resi conto: è sbeccato, è pieno di polvere, si è rovinato il colore… per poi decidere che, nonostante tutto, volevamo comunque rimanesse lì per la gioia che ci dava, per l’abitudine, per i bei ricordi, perché ormai era parte della casa. Poi un giorno, qualcuno, distratto, non se n’è reso conto e non conoscendo la casa, non conoscendo le proporzioni, non avendo la stessa attenzione nel muoversi gli è passato accanto... urtandolo il vaso è oscillato fino a cadere e a rompersi. Che rumore allora ha provocato, tutto d’un tratto ci siamo resi conto della sua presenza, di quanto fosse importante per noi. Forse non è stata colpa dell’ospite, forse era da tempo che volevamo cambiare il vaso… ma tutto sommato lo avremmo lasciato lì, perché era parte di noi, perché era rassicurante vederlo non vedendolo, sempre lì, perché se avesse potuto parlare avrebbe raccontato un pezzo della nostra vita che nessuno conosceva. Alle volte i vasi si possono riparare, altre volte se ne comprano di nuovi che pian piano diventano parte della nostra vita, altre volte ancora sono dei pezzi unici che non si possono ricomprare e tantomeno ricostruire, impareremo a fare a meno di loro ma resteranno sempre e comunque nella nostra memoria “Ti ricordi… quel vaso orrendo… però che peccato quando si ruppe”.