"fino a che non va a segno è tutto da giocare"

giovedì 23 dicembre 2010

Libretto di istruzioni e garanzia alle volte sarebbero importanti...


Tutti quanti, salvo problemi peggiori in età successive, almeno una volta nella vita ci siamo rivolti ai nostri genitori dicendo “Io non diventerò mai come te”.  Curioso e frequente è poi elogiarli davanti a terzi estranei, anche solo due minuti dopo, affermando che quel genitore, come il quale non avremmo voluto diventare, è in realtà il nostro modello di vita: un po’ il maestro Yoda della situazione a pari merito con i nonni, per chi abbia avuto la fortuna di incontrarli.
Non si scappa, ne parlò per primo Freud, poi, avendone pensate troppe, lasciò temporaneamente da parte l’elucubrazione mentale, prontamente ripresa da un bell’uomo, un po’ crucco, svizzero, che ci piazzò sopra la bella etichetta “Complesso”, qualche fiocchettino quà e la' e... voilà: bollata, cotta, pronta ad essere consegnata ai tormenti notturni di qualche inesperto genitore. Carl Gustav Jung. Un nome che oscilla dal crucco all’orientale. Prendetevela con lui o più probabilmente con la sua prole, ammesso e non concesso che ne abbia avuta e che sia riuscita a superare il “complesso” tanto studiato dal padre.
La cosa sorprendente è che, secondo tutti questi eruditi pensatori, noi, tutti, per il bene della nostra sfera mentale e sessuale, il complesso lo dovremmo superare entro i sei anni circa. E non ci sono rimandati a settembre. Se non passi quel dannato esame sono solo ed esclusivamente fatti tuoi per tutta la vita. Un esame del complesso di Edipo è per sempre. Ma adesso, allora, qualcuno sarebbe tanto gentile da spiegarmi dove fosse l'esaminatore per quell’ammasso di uomini e donne sulla cinquantina che litigano sotto le feste per festeggiare a casa di un genitore o dell’altro? E tutti quelli che litigano per le suocere? Non è forse Edipo che dopo secoli viene ancora a rompere gli spilloni a qualcun altro?
Nonostante le ribellioni, le proteste, le parole, le delusioni, gli attriti, tutti quanti, nessuno escluso, amiamo i nostri genitori. Può sembrare una tautologia o la classica frase da buonismo scontato, ma credo che analizzandola abbia un senso. Se non impari ad amare loro non puoi amare te stesso e qualora un giorno dovessi avere dei figli non potrai amarli, perché arriverai ad un punto del domino e ti mancherà una tessera. “Io non sarò mai come te”. “Io non commetterò mai i tuoi stessi errori”. Poi ti accorgi che quel codice di serie con cui sei venuto al mondo, quel DNA, su più bello è in vantaggio. Trascorri la tua vita ad analizzare le tue mosse, come se fosse la finale di un torneo di scacchi, poi basta un parente che per analogia mentale ti paragona ad un genitore e sei al punto di partenza mentre pensi “Non è vero si è sbagliato… Cazzo!”. E in quell’esclamazione c’è tutta la consapevolezza che, per quante esperienze tu possa fare, per quanto lontano tu possa andare, per quanto tu ti possa applicare a non commettere gli stessi errori, a cambiare i lati del carattere che dei tuoi genitori non ti piacciono… per quanto tu possa, sei e rimani un loro prodotto. Hai il loro numero di serie. Perché loro sono la prima cosa che hai visto al mondo, perché il mondo lo hai sentito attraverso i loro organi, perché per quanto evoluti restiamo animali. Nel momento in cui realizzi questo ti senti una bestiola del circo in una gabbia di acciaio. Un grande elefante per il quale hanno già segnato, passo più passo meno, il percorso da seguire sotto il tendone. Ed impieghi il tempo a cercare la chiave per evadere, la soluzione di questo cubo di Rubik. E non esiste. Consolati sapendo che branchi di elefanti prima di te hanno percorso la stessa pista ed hanno cercato la stessa chiave senza trovarla: ma se vuoi puoi essere più bravo, tu puoi fare una piroetta ed essere ricordato rispetto agli elefanti che ti hanno preceduto. That’s it. Se il mondo ci avesse voluti diversi ci avrebbe fatto nascere come le tartarughe.

martedì 21 dicembre 2010

Illuminazioni odontoiatriche tra il caricatore ed i calzini.

Fuori il ghiaccio, qui le luci made in PRC che riescono comunque a dare l’atmosfera che qualcosa è cambiato da qualche settimana fa’. Valigie aperte e appunti sparsi su post-it sembrano essere stati rigurgitati dalle mattonelle del pavimento. Se non si trattasse di una partenza sarei propensa a pensare ad un’esplosione atomica davanti a questo scenario. Mentre John canta nelle mie orecchie alternandosi a Ben i miei pensieri decidono di fare ricreazione, ostinandosi ad allontanarsi dalla concentrazione cui dovrebbero applicarsi: almeno per evitarmi l’imbarazzo all’aereoporto di dover comunicare a mia madre che, avendo una figlia rincoglionita, dovrà acquistare l’ennesimo spazzolino che ingrasserà la collezione degli spazzolini “Christmas limted edition”. Durano le vacanze di Natale e, puntualmente, l’anno successivo nessuno ne ricorda la paternità: relegati sotto l’etichetta “no man land” diventano colorato arredamento del bagno o al massimo strumento per estemporanei attacchi di arte di qualche nipote. I bagagli sono il momento che più detesto delle partenze. Incominci a farli sapendo sempre che, per quanto ti possa applicare, qualcosa sarà dimenticato a casa. Per certo avrai portato tutto il superfluo: ma puoi scommetterci il biglietto di viaggio che qualcosa di assolutamente essenziale e banale l’hai dimenticata a casa. Non per forza si deve trattare di qualcosa di materiale. Talvolta può anche trattarsi della mente, del buon umore che le persone all’aeroporto si aspettano da te o, più semplicemente, della voglia di prendere con il mood giusto il viaggio. Ultimamente io mi sono specializzata nei pensieri lasciati in sospeso. È come se, chiudendo il portone di casa, lasciassi dei panni appesi che sono qui ad accogliermi al mio ritorno, esattamente uguali a come li ho lasciati, magari solo un pò impolverati. Qualcosa a metà tra un fantasma e un salvadanaio. Però mi guastano terribilmente l’umore. Adoro viaggiare ma ritrovarli lì al mio ritorno svilisce il viaggio. Qualunque viaggio presupporrebbe una crescita, un miglioramento, un cambiamento. Ritrovare certi pensieri ancora appesi riaprendo la porta di casa fa sì che alcuni viaggi si mascherino da fuga: e che qualcosa svilisca o discrediti il viaggiare mi manda in bestia. Stasera, chiudendo le valigie, il pensiero è andato a quei miei amici che le valigie non le chiudono più, ma che ovunque io vada porto sempre nella mia. Anche se si tratta semplicemente di un beauty case. Solo in quel momento forse ho davvero realizzato quella cosa banale, eppure strettamente essenziale, che dimenticavo a casa. Al diavolo il limite di peso in aereoporto. Che si arrangi il controllo dei liquidi. E con lui la gabbietta infernale in cui inserire il bagaglio a mano. Facciano come gli pare anche le macchinette self-ticket. L’unica cosa che mi serve è proprio quello spazzolino che ogni anno dimentico a casa. E che dimenticherò sicuramente anche quest’anno. Quello che mi serve è proprio arrivare all’aereoporto, vedere la faccia sorridente e rassegnata di mia madre alla notizia ed andare a comprarlo in quel piccolo negozio sopravvissuto alla GDO, dallo stesso commesso, ogni anno più vecchio, facendo scegliere il colore a mio nipote, ogni anno più grande. L’essenziale è la meta e le emozioni che si provano nel cercare di raggiungerla. Magari quest’anno dimentico tutto il resto ma mi ricordo di essere una viaggiatrice.

Ps: Resti chiaro che... se mi toccano il bagaglio… scatta la class action...

mercoledì 15 dicembre 2010

Invisibile eppur mortale...

Certi avvenimenti, certe persone, certe dinamiche sono sempre più convinta che siano come i virus. Si insinuano, sottili, invadono, impestano e abbandonano il campo solo dopo aver distrutto tutto. E tanto più sono silenziosi e tanto più pericolosi sono, più dolorosi, più devastanti. Il problema dell’uomo contemporaneo, tra i mille che gli appartengono, è che teme solo le cose grandi. Pensa a suo modo di essere immortale, invincibile, il più furbo o semplicemente “il più”, quello cui tutto è dovuto e cui nulla può capitare, tralasciando dalla memoria che anche i dinosauri si sono estinti. Davanti a taluni atteggiamenti della società mi vengono in mente le profezie dei Maya che, a differenza di come molti pensano, non predicono la fine del mondo ma semplicemente la data del cambiamento, quella davanti alla quale l’uomo sarà dotato di libero arbitrio e dovrà scegliere la direzione da seguire posto davanti a un bivio. Ma non vi preoccupate, continuando a percorrere questo sentiero daremo grandi soddisfazione ai catastrofisti: fine del mondo, perché, come sempre, l’alternativa al cambiamento che comporterebbe uno sforzo non l’abbiamo nemmeno presa in considerazione. Alteriamo il nostro habitat, priviamo i popoli del necessario per soddisfare i bisogni primari e ci neghiamo la cultura per comprendere cosa ci circonda e per essere in grado di comunicare. Il virus è invisibile all’occhio umano, eppure è mortale per molti esseri viventi. Senza i batteri tutti gli ecosistemi si smantellerebbero nell’arco di poco tempo. Ma dell’uomo, sì dell’uomo, nessuno sentirebbe la mancanza.

giovedì 9 dicembre 2010

So I start a revolution from my field…

Ora più ora meno trent’anni fa' un uomo con disturbi della personalità uccideva John Lennon. Una persona la cui ossessione più grande era quella di diventare “qualcuno”. Lo asseriva anche una mia insegnante delle scuole medie “Ragazzi per passare alla storia ci sono due vie: fare il bene in maniera grandiosa oppure fare tanto male”.
Stamattina ho letto da qualche parte che le leggende non muoiono mai. Purtroppo i loro sogni sì però. E anche i loro messaggi. Tutti elementi che rischiano di morire lentamente a differenza della memoria di chi li ha elaborati.
In piena rivoluzione sessuale, lui, Lennon, quando tutti se la facevano con tutti e se non lo facevi eri uno sfigato -per intenderci- fece ricordare che tutte le storie d’amore hanno quel sapore edipico che le fa cominciare da un desiderio: “Voglio stringerti la mano”. Sì, quello stesso desiderio che provi a due anni per tua madre. Il primo atto d’amore. Di rassicurazione. Di consolazione.
Io trent’anni dopo sono qui a sentir parlare ancora dell’omicidio di John Lennon, ringraziando mio padre per avermi cresciuta a chilometri in auto e Beatles, mio fratello per avermi messo in mano a quattordici anni una copia del romanzo di Salinger (con le dovute raccomandazioni) e chiedendomi, come le generazioni che mi hanno preceduto: Perché? Ma soprattutto: what if? Se si fosse verificato oggi, sarebbe andata allo stesso modo? Credo peggio.
Perché se per parlare di rivoluzione parliamo ancora di trent’anni fa allora, forse, qualche problema lo abbiamo. Perché se una ragazza è troia e un ragazzo è ancora un latin lover, quella rivoluzione partita dal letto forse ha toppato da qualche parte e ancora perde. Perché se quell’India dove loro andarono per cercare ispirazione si rivela più civile, acculturata ed economicamente forte di noi che con arroganza ci definiamo da secoli, in maniera più o meno diretta, “il popolo eletto” allora qualche domanda ce la dobbiamo fare. Perché se i cambiamenti d'opinione, le battute d’arresto, la curiosità fuori dagli schemi, in questo continente, sono ancora considerati una colpa e non una risorsa, qualcosa non va’. Perché se qualcuno deve ancora decidere come si dovrà svolgere quella rivoluzione dal letto, dettandone le modalità, mentre donne e uomini avanti nell’età, rifatti di botulino, con evidenti problemi di accettazione del trascorrere del tempo, agghindati come un personaggio di Pirandello, devono dettare cosa dobbiamo indossare, dove dobbiamo andare e come ci dobbiamo atteggiare per essere degli “insight”, come se fossimo ad un corso di economia domestica, se tutto questo accade, allora è evidente qualcosa si è rotto nella macchina generazionale.
Siamo tutti consapevoli che non sia facile cambiare, forse è per questo che lui incitava ad immaginare, perché se chiudi gli occhi, non vedi, ma riesci a sentire il mondo più vicino, forse non vedrai l’alba, ma almeno percepirai il respiro del tuo vicino.
So I start a revolution from my field, perché il letto ha fallito…

domenica 5 dicembre 2010

E' come un vaso...

Ci sono cose che fanno rumore e ce ne sono altre che semplicemente nella loro immobilità, nel loro silenzio, si fanno apprezzare. Entrano giorno dopo giorno nella vita, diventano parte di un quadro che siamo abituati a vedere, sempre così, sempre immobile eppure ogni giorno diverso. Ci danno la sensazione che qualunque cosa accada saranno lì, per sempre, perché anche quando abbiamo pensato di cambiarle poi, inevitabilmente, siamo tornati indietro… perché senza quell’elemento nulla sarebbe stato lo stesso. E’ come il vaso orrendo, regalo di nozze dei nostri genitori, sempre lì sul tavolino vicino al telefono. Nessuno si ricorda chi ce l’abbia messo lì e perché nonostante tutti i suoi difetti rimanga in vista: sappiamo solo che da quando siamo bambini ricordiamo di averlo visto lì. Mille volte abbiamo sfiorato la sua superficie fredda prendendo le chiavi, oppure lo abbiamo sollevato per usarlo come fermacarte, a volte abbiamo anche creduto che stesse per cadere, altre volte sapevamo benissimo dove fosse ma non lo vedevamo… era un’entità astratta di riferimento: "Dove lo trovo?" "Lì accanto al vaso". Forse troppe volte gli siamo passati accanto senza rendercene conto e quando la nostra attenzione si è poggiata su di lui, allora ce ne siamo resi conto: è sbeccato, è pieno di polvere, si è rovinato il colore… per poi decidere che, nonostante tutto, volevamo comunque rimanesse lì per la gioia che ci dava, per l’abitudine, per i bei ricordi, perché ormai era parte della casa. Poi un giorno, qualcuno, distratto, non se n’è reso conto e non conoscendo la casa, non conoscendo le proporzioni, non avendo la stessa attenzione nel muoversi gli è passato accanto... urtandolo il vaso è oscillato fino a cadere e a rompersi. Che rumore allora ha provocato, tutto d’un tratto ci siamo resi conto della sua presenza, di quanto fosse importante per noi. Forse non è stata colpa dell’ospite, forse era da tempo che volevamo cambiare il vaso… ma tutto sommato lo avremmo lasciato lì, perché era parte di noi, perché era rassicurante vederlo non vedendolo, sempre lì, perché se avesse potuto parlare avrebbe raccontato un pezzo della nostra vita che nessuno conosceva. Alle volte i vasi si possono riparare, altre volte se ne comprano di nuovi che pian piano diventano parte della nostra vita, altre volte ancora sono dei pezzi unici che non si possono ricomprare e tantomeno ricostruire, impareremo a fare a meno di loro ma resteranno sempre e comunque nella nostra memoria “Ti ricordi… quel vaso orrendo… però che peccato quando si ruppe”.

sabato 27 novembre 2010

Trasformazione, Terapia, Tesoro

“Quando potrò riaverlo?” “Quando dimenticherai di avermelo dato”.Time. Tempo. Tiempo. L’oggetto della celebre battuta di Autumn in New York era un orologio. Strano che nella maggior parte delle lingue europee la parola “tempo” inizi con una T. È tutto in quei due bastoncini che impattano. Tutto in una “T”. Quel momento in cui viene a galla tutto. Immateriale eppure così essenziale per la vita di chiunque. Ci lotti, perdi, lo perdi, lo detesti, ti manca, vuoi che passi, ci pensi… eppure è sempre lui. Ed è sempre in testa a tutto. Vale più dell’oro, più del petrolio ed è l’unica cosa contro cui nessuno può far nulla, nemmeno Dorian Grey. Nulla lo scalfisce o lo incatena: né potere, né ricchezza, né tanto meno la giovinezza. Tempo. Se va bene ti dà ragione, basta lasciarlo lavorare. Se va male dicono cancelli tutti i fallimenti. È di sicuro il contabile più fedele, ma anche l’investimento più rischioso. Completa puzzle e talvolta lascia uno spago a cui aggrapparsi. C’è chi vive solo in esso e chi cerca di proiettarsi oltre. Io? Io stasera semplicemente lo lascio fare, cercando di capire cosa di buono si possa trarre dalla sua corrente…

sabato 13 novembre 2010

“Champagne?” “No, grazie. L’uscita?”

Certe occorrenze sociali convenzionali sono un ottimo motivo per mettere un punto. Sì perché alle volte, un punto, ci vuole proprio. Te ne stai lì, sul tuo angolo di divanetto, che guardi passare guantiere di cibo standardizzato e vassoi di bicchieri e nel mentre mediti sulla vita. Sembra assurdo ma è terribilmente vero. Dal divanetto di un lounge bar all’ora dell’aperitivo credo si possano potenzialmente elaborare più bilanci di un commercialista a dicembre. Indossi il tuo più bel sorriso di plastica, o almeno quello meglio riuscito, e se l’interlocutore non è convincente, o è un collettivo, annuisci, sorridi e lanci qui e lì qualche intercalare: il gioco è fatto. Quanto passi per la testa è tutt’altro. Il bello è che lo spettacolo, ad osservarlo bene, è quasi sempre vario, quindi non si rischia la noia. Allora vedi il soggetto che non smette mai di parlare di sé stesso, con sommo tedio del mondo circostante, che, ovviamente, non nota neanche, preso com’è dal proprio ego. Poi c’è l’offeso, ovvero quello che sta lì, studia le aree di influenza, per qualche motivo non gli vai a genio, quindi cerca di evitarti dalla sua traiettoria visiva, mantenendo comunque il minimo di garbo prescritto dal viver civile. Ancora, c’è la chiacchera di circostanza: ha il ritmo di una suoneria del cellulare e solitamente anche la stessa durata. Spesso si accompagna alla scarsa conoscenza o, in alternativa, all’ipocrisia. Anche lo scrutatore è un soggetto abbastanza frequente in tali circostanze: ti guarda insistentemente, cercando nella memoria qualche appiglio per riconoscerti o, più semplicemente, qualche cenno che confermi la sua ipotesi, vera o presunta che sia. Nei casi migliori poi c’è l’amico. Quella persona che non vedi da tanto, per la quale il tempo può passare ma non intaccare nulla di quanto aveva costruito, quella con cui ti senti a casa, che non guarda come sei vestito, cos’ hai fatto, se sei adeguato alla circostanza: perché semplicemente ha piacere di vederti e del resto gliene importa poco. Dopo aver focalizzato tutte queste fattispecie tendenzialmente la soglia di resistenza è già vicina al limite, ma questo viene superato facilmente, innescando l’azione, alla vista, non improbabile, del rinnegatore. Questo momento, tipicamente, segna l’acme negativo della serata ma è foriero di una sensazione liberatoria: varcare la soglia dell’uscita sapendo di aver superato tutto il superabile. Ti trovi davanti a un soggetto che fino al giorno prima si definiva tuo amico e adesso, per qualche circostanza occorsa e contingente, finge di non conoscerti. Tale atteggiamento può oscillare in uno spettro di possibilità che spazia dal saluto imbastito, come se l’avessi sorpreso sul wc aprendo inavvertitamente la porta, passando per il sorriso da courtesy staff, per finire con la finta distrazione, altamente sconsigliata poiché istrionicamente difficile da sostenere. Davanti a questo soggetto il pensiero più frequente, secondo dati attendibili riportati dal sondaggio delle arachidi, è “ma va’ a cagare” seguito da attributi o apposizioni varie. Ma in fin dei conti se persino Cristo è stato rinnegato tre volte da S.Pietro un umano non è nessuno per guadagnarsene di meno. Qualcuno in passato mi diede un saggio consiglio: osservare il mondo tenendo in mente che talvolta “what you see is what you get”. Con questo mantra nella mente allora ti alzi, perché hai visto abbastanza, saluti con gesti sentiti, o alla peggio con altri sorrisi di plastica, e cerchi di prendere il meglio di quello che hai visto: il tuo bilancio per fare una cernita e lasciare spazio al meglio, lasciando che il peggio sia portato via con gli avanzi dell’insalata russa. What you see is what you get. “Signorina, beve?” “No, grazie (sorriso). Mi scusi, l’uscita?”.

mercoledì 15 settembre 2010

QUANDO UN FANTASMA SI METTE L'ABITO DA SERA

Un clichè dei telefilm americani è solito affermare che il sesso cambia tutto e talvolta lo rovina, lo compromette. Io credo che invece il problema risieda a monte. Prima. Non è il sesso. Nella storia sono esistite storie d’amore portate avanti per anni senza sesso. Talvolta gli amori che si ricordano con più affetto ed emozione sono quelli adolescenziali in cui spesso il sesso non c’è nemmeno. Il problema è l’idea. Il pensiero. Il cambiamento di equilibrio. Quella situazione per cui dire un “ciao” poi non è più la stessa cosa. Quella condizione per cui le parole che prima venivano pronunciate senza pensarci poi vengono ponderate. Quello stato mentale per cui si analizzano espressioni e atteggiamenti della persona con cui si entra in relazione. Il problema è l’adrenalina. L’adrenalina della tensione che si accompagna ai salti di qualità delle relazioni. Il problema è un bacio: dato, non dato, alle volte non conta nemmeno… basta l’idea nell’aria e la percezione della possibilità concreta a cambiare le cose. E poi? E poi quanto viene dopo è la matrice della letteratura, della commedia e della tragedia. Si è di fronte ad un bivio. Lanciarsi o fare marcia indietro. Restare o fuggire. Oppure, nel più inerziale dei casi, affrontare il ventaglio delle possibilità, combattere la legnosità dell’imbarazzo, guardare avanti ed essere quelli di sempre. Quelli di prima: ma con la consapevolezza che indietro non si può tornare.

martedì 20 luglio 2010

Sussurrando parole di saggezza "Let it be"


Il sole sulla pelle. Quello che riscalda anche se non c’è attrito. Quello del primo giorno di mare. Quello che si accompagna alla pesantezza sulle palpebre e al profumo di doposole. L’aria calda del giorno che dicono essere il più caldo di quest’estate anomala. Io qui, in una camera che non ha più nulla di me se non i suppellettili scelti quando ancora la mia vita era qui. Sono dieci giorni che non fumo ma stasera una sigarettina è proprio quello che ci vorrebbe. Giro per casa alla ricerca di qualche pacchetto nascosto. Un tempo c’era l’abitudine in questa famiglia di tenere un portasigarette da sala sempre fornito per gli ospiti. Abitudine evidentemente persa da quando qui non fuma più nessuno. Frugo in camera e in mezzo a scatoloni mai svuotati emergono ricordi. Apro cassetti e con essi emergono pezzi di vita che sono rimasti chiusi lì per anni. Forse sarebbe stato meglio rimanessero lì. Non mi tradisco mai. Infatti in un pacchetto stropicciato, in mezzo a scontrini, centesimi e mollette per i capelli trovo una Malboro ammaccata. Una Malboro rovesciata. Insana moda di qualche anno fa’ di rovesciare per ogni pacchetto importante una sigaretta. La sigaretta del desiderio. Ironico: che desiderio avessi espresso allora nemmeno lo ricordo più. L’accendino nel pacchetto è stilosissimo ma esaurito. Poco male. Nella mia ricerca di tabacco ho trovato un altro reperto archeologico. Una delle tre scatole di fiammiferi formato famiglia con stampa della Londra ottocentesca. Kitchissimo regalo di mio fratello di ritorno dalla vacanza studio inglese. Poi si lamentano che io abbia iniziato a fumare. Con un regalo così a dodici anni le ipotesi sono due: o il mio caro fratellino mi stava simpaticamente invitando a darmi fuoco, oppure voleva iniziarmi ai goliardici piaceri di Tabacco essendo troppo piccola per gli altri due. Ricordo che quel regalo per me fu ugualmente magico, quando Londra sembrava lontanissima e le vacanze studio sembravano la frontiera dell’emancipazione. Ad oggi vivo da sola da sei anni e sono stata a Londra tre volte. Sì, col tempo le prospettive cambiano decisamente. In terrazza c’è un piacevole venticello e i tetti della città sono illuminati dalle luci ambrate del centro storico. IPod nelle orecchie. Come al solito canzoni che hanno un tempismo perfetto. Across the universe che mi accompagna attraverso il mio universo personale. I cerini sono talmente vecchi che nemmeno si accendono più. La sigaretta sa di tutto, sa di passato, sa di viaggio ma non di tabacco. Ha il sapore della canfora dei cappotti e un retrogusto di incenso del mio adolescenziale taccuino indiano fatto a mano. Across the universe, Pezzi di vetro ed infine Let it be. Se non credessi già per conto mio alle coincidenze dovrei ugualmente pensare che il congegno elettronico che ho attaccato ai timpani stia tentando di dirmi qualcosa. Attraverso il mio personalissimo universo di ricordi mi ritrovo ad ascoltare la colonna sonora che mi ha accompagnato nella decisione di abbandonare questo posto e poco dopo a sentire i Beatles che mi consigliano “let it be”. La sigaretta è finita, il vento si è fermato e dalla piazza proviene il suono sgraziato di una composizione elettronica. La poesia di questo attimo è finita. Forse è proprio il caso di lasciare che sia, di abbandonare il passato alle spalle, di chiudere il cerchio dei ricordi. Il coperchio dei ricordi. Di lasciare che tutto rimanga qui dov’è… perché il mio posto è altrove.

sabato 26 giugno 2010

DICONO


Dicono. Dicono che non bisognerebbe mai essere troppo duri con gli altri. Ma soprattutto con sé stessi. Dicono che sarebbe meglio non tagliare i ponti, perché non puoi mai sapere quante volte dovrai ripassare per quella strada. Dicono tutto e il contrario di tutto. Ma la realtà è che quando si tratta della tua vita niente conta. Nessun consiglio. Nessuna raccomandazione. Nulla conta. Sono solo parole alle quali ci si aggrappa per appoggiare la propria teoria. Per placare il senso di colpa. Per essere sicuri della propria scelta in un momento di confusione. Dicono anche che questo non si chiami vivere ma sopravvivere. Allora quante sono le persone che sopravvivono e basta? Tante. Forse troppe. Dicono che chi si lascia trascinare dagli eventi alle volte viva meglio. Ma, come prevedibile, questo contraddice altre cose dette. Dicono anche che scegliere è un gran rischio, ma che ne vale la pena. Solo se sei disposto a soffrire. E a quel punto ti trovi nella condizione di ascoltare quanto “dicono”. Credo che quando Quasimodo scrisse: “Ognuno sta solo sul cuor della terra/trafitto da un raggio di sole:/ed è subito sera” avesse dimenticato di citare la nube delle cose che “dicono” nella quale si è immersi nel mentre.

mercoledì 26 maggio 2010

CAVALLO O SOMARO DA CIRCO A STRISCE?


Perché sarò ancora una volta qui invece che a dormire proprio non lo so. Sarà che i pensieri in questa città si posano solo quando, apparentemente, con il buio, sembra che anche lei smetta di correre e trovi pace. Oggi mi sono fermata sul balcone di casa. Questa stanza di 20mq che mi ha accompagnato per tanti anni, questi tramonti rossi che solo Milano sa regalare, visti da qui, un po’ mi mancheranno. E’ vero: c’è lo smog, è tossica, la gente è stressata e fatica ad arrivare a fine mese, la spesa si fa alle nove di sera se va bene ma… ma questa città ha un suo fascino. Ci sono un sacco di cose che nella nostra vita sono tossiche, ci fanno male, faremmo forse meglio ad accantonarle ma continuiamo a portarle avanti, a farle, a caderci e a rituffarcici. Forse in fin dei conti hanno lo stesso fascino. Stasera la mia colonna sonora è “Il negozio di antiquariato” di Niccolò Fabi. Saranno almeno sette anni che non ascoltavo questa canzone. O almeno che non mi capitava di canticchiarmela nella testa. L’ultima volta ero in romagna e il vento mi sfrecciava tra i capelli a bordo di una cabrio in una sera d’agosto sulla strada a scorrimento veloce che da Pesaro porta a Riccione. Anche quelle serate poi non portavano a niente se non a ricordi. Ma ancora non ho smesso. Non c’è più una cabrio ma le serate che non portano a nulla ci sono ancora. E ora come allora si ripetono perché hanno un loro fascino e nella memoria lasciano sorrisi e profumi. Ora come allora ci sono situazioni e persone sospese che sono dei grandi, immensi, mastodontici punti interrogativi: strade o percorsi? Ora come allora mi chiedo dove sia il posto della meraviglia, perché più cresco e più diventa nascosto… e questo tesoro? E’ già difficile trovare un arcobaleno, figuriamoci il tesoro alla fine. E quello che avevo accanto nel letto il più delle volte si rendeva conto troppo tardi che io avrei potuto essere il suo tesoro. Talvolta anche io ho commesso lo stesso errore. Una parte di me è ancora quella post teen-ager che ascoltando questa canzone si chiedeva se mai sarebbe riuscita ad azzeccare i tempi per questa “caccia al tesoro”. Dicono che se senti rumore di zoccoli dovresti pensare al cavallo e non alla zebra. Ma stasera ho il dubbio che la maggior parte di noi si farebbe scappare Varenne sotto il naso per inseguire un qualsiasi somaro da circo colorato a strisce solo per il gusto del “diverso”. “Non si può entrare in un negozio e poi lamentarsi che tutto abbia un prezzo”. Tocca solo sperare che quando saremo merce il mercante giochi al rialzo e che comprando i nostri occhi non confondano lo stagno con l’oro.

venerdì 14 maggio 2010

L'ARTE DI MASTICARE


Dovrei essere altrove a fare altro. Invece sono qui a pensare. Ancora una volta una canzone che apre una voragine nei miei pensieri. Questa volta “Oh, Darling!” dei Beatles nella versione di “Across the Universe”. Mi chiedo perché siano sempre uomini a scrivere canzoni. O almeno nella maggioranza dei casi. Tutte le canzoni d’amore che al momento mi vengono in mente hanno un soggetto maschile che canta e si strugge per una fantomatica donna. Che poi tutto questo pianto finisca per trasformarsi in un fiume d’insulti nella canzone successiva è tutta un’altra storia. Mi chiedo se quegli uomini che scrivevano canzoni come “Oh, Darling” esistano ancora o se tutte queste canzoni siano solo uno sfogo tardivo per una rottura che hanno causato loro stessi con il loro comportamento “maschio”. Come affermava il saggio Liga “si farebbe un secolo prima per lui e per lei se lei tornasse vestita soltanto del bicchiere”. Allora perché le cose non si dicono mai in faccia a tempo debito, quando potrebbe esserci ancora una soluzione possibile? Perché tutto si porta alla logorazione più totale quando i bicchieri si vorrebbero scagliare e basta?
Mio nonno e mia nonna sono rimasti insieme per una vita. Anche nei momenti difficili, anche quando mia nonna era uno straccio e quando mio nonno era stanco, lui aveva sempre una parola dolce per lei. Fino al giorno in cui è morto qualunque cosa facesse mia nonna lui sorridente le rispondeva “ecco la mia signora”. La mia signora. Tutto questo mi appare inconciliabile con le situazioni che ho sotto gli occhi ogni giorno o con quello che leggo sui giornali. Forse quando mia nonna e mio nonno stavano insieme prima di sposarsi non si poteva realmente conoscere la persona con cui si sarebbe trascorso il resto della vita. I fidanzamenti erano anni di sguardi, mezze parole, incroci furtivi di mani, attese e aspettative che montavano in segreto. E quando ti sposavi avevi una vita per conoscere realmente la persona che ti stava affianco. E ogni giorno era una nuova sorpresa. Non ti stancavi mai. Forse, la soluzione stava proprio lì. Come mi disse un giorno un folle saggio “il segreto sta nell’imparare a masticare le cose”.

martedì 11 maggio 2010

ALTRO CHE CLEOPATRA... MISS FELICITA' HA FATTO DI PEGGIO

Per la serie "pensieri deliranti sotto la doccia". Ieri notte mi sono trovata a meditare sulla felicità. Tutta colpa della selezione casuale del mio i-Pod che ha scelto una canzone dei Negrita. E sul ritornello martellante è partito il film. 
"Che rumore fa la felicità?" quella del portone che si chiude alle spalle dopo una lunga giornata o il trillo di un telefono? Alle volte me lo sono chiesta. Forse è un respiro familiare, oppure il sibilo del vento mentre sei incantata alla fermata del tram e rifletti. Forse non esiste. Oppure non la vediamo. Magari c'hanno preso tutti in giro e si è persa insieme al Sacro Graal centinaia di anni fa. E' una cosa che tieni lì nella speranza che un giorno si concretizzi... sì...  dai, un pò come quando davanti allo specchio parli alla tua immagine riflessa, sperando che quella parte adulta di te prima o poi risponda e dia una dritta alla parte immatura di te, che la fa da padrone nell'anima come fosse un teppistello di paese.
E se per paura alla Felicità dai un calcio in faccia? Lei che fa? Soffre? Piange? Sanguina? No quelli siamo noi, perché la Felicità se ne frega... tutti la rincorrono e lei, immateriale, salta da una mente all'altra. E se la ghigna a vedere i nostri pensieri. Milioni di persone che nell'arco della storia hanno fatto di tutto per averla e lei forse si è concessa ma non si è mai data... che grande meretrice, lei si che ci sa fare...
Forse è amica della Fortuna. E per capirla bisogna essere ciechi. Sì, ciechi. Ecco perchè quando la inseguiamo chiudiamo gli occhi stretti stretti, e quando lei, la Felicità, ci si concede non vediamo più nulla e facciamo cose sciocche.
Come tante cose nella vita, a valutarla "razionalmente" lei, miss Felicità, dovremmo solo mandarla a quel paese, ma come si fa con tante persone nell'arco della vita, credo che la cercheremo ancora per un po', nonostante tutti i suoi difetti, nonostante tutto ciò sia profondamente irrazionale. Perché quando poi ti bacia, sì, si fa perdonare un sacco di cose...