Tutti quanti, salvo problemi peggiori in età successive, almeno una volta nella vita ci siamo rivolti ai nostri genitori dicendo “Io non diventerò mai come te”. Curioso e frequente è poi elogiarli davanti a terzi estranei, anche solo due minuti dopo, affermando che quel genitore, come il quale non avremmo voluto diventare, è in realtà il nostro modello di vita: un po’ il maestro Yoda della situazione a pari merito con i nonni, per chi abbia avuto la fortuna di incontrarli.
Non si scappa, ne parlò per primo Freud, poi, avendone pensate troppe, lasciò temporaneamente da parte l’elucubrazione mentale, prontamente ripresa da un bell’uomo, un po’ crucco, svizzero, che ci piazzò sopra la bella etichetta “Complesso”, qualche fiocchettino quà e la' e... voilà: bollata, cotta, pronta ad essere consegnata ai tormenti notturni di qualche inesperto genitore. Carl Gustav Jung. Un nome che oscilla dal crucco all’orientale. Prendetevela con lui o più probabilmente con la sua prole, ammesso e non concesso che ne abbia avuta e che sia riuscita a superare il “complesso” tanto studiato dal padre.
La cosa sorprendente è che, secondo tutti questi eruditi pensatori, noi, tutti, per il bene della nostra sfera mentale e sessuale, il complesso lo dovremmo superare entro i sei anni circa. E non ci sono rimandati a settembre. Se non passi quel dannato esame sono solo ed esclusivamente fatti tuoi per tutta la vita. Un esame del complesso di Edipo è per sempre. Ma adesso, allora, qualcuno sarebbe tanto gentile da spiegarmi dove fosse l'esaminatore per quell’ammasso di uomini e donne sulla cinquantina che litigano sotto le feste per festeggiare a casa di un genitore o dell’altro? E tutti quelli che litigano per le suocere? Non è forse Edipo che dopo secoli viene ancora a rompere gli spilloni a qualcun altro?
Nonostante le ribellioni, le proteste, le parole, le delusioni, gli attriti, tutti quanti, nessuno escluso, amiamo i nostri genitori. Può sembrare una tautologia o la classica frase da buonismo scontato, ma credo che analizzandola abbia un senso. Se non impari ad amare loro non puoi amare te stesso e qualora un giorno dovessi avere dei figli non potrai amarli, perché arriverai ad un punto del domino e ti mancherà una tessera. “Io non sarò mai come te”. “Io non commetterò mai i tuoi stessi errori”. Poi ti accorgi che quel codice di serie con cui sei venuto al mondo, quel DNA, su più bello è in vantaggio. Trascorri la tua vita ad analizzare le tue mosse, come se fosse la finale di un torneo di scacchi, poi basta un parente che per analogia mentale ti paragona ad un genitore e sei al punto di partenza mentre pensi “Non è vero si è sbagliato… Cazzo!”. E in quell’esclamazione c’è tutta la consapevolezza che, per quante esperienze tu possa fare, per quanto lontano tu possa andare, per quanto tu ti possa applicare a non commettere gli stessi errori, a cambiare i lati del carattere che dei tuoi genitori non ti piacciono… per quanto tu possa, sei e rimani un loro prodotto. Hai il loro numero di serie. Perché loro sono la prima cosa che hai visto al mondo, perché il mondo lo hai sentito attraverso i loro organi, perché per quanto evoluti restiamo animali. Nel momento in cui realizzi questo ti senti una bestiola del circo in una gabbia di acciaio. Un grande elefante per il quale hanno già segnato, passo più passo meno, il percorso da seguire sotto il tendone. Ed impieghi il tempo a cercare la chiave per evadere, la soluzione di questo cubo di Rubik. E non esiste. Consolati sapendo che branchi di elefanti prima di te hanno percorso la stessa pista ed hanno cercato la stessa chiave senza trovarla: ma se vuoi puoi essere più bravo, tu puoi fare una piroetta ed essere ricordato rispetto agli elefanti che ti hanno preceduto. That’s it. Se il mondo ci avesse voluti diversi ci avrebbe fatto nascere come le tartarughe.