"fino a che non va a segno è tutto da giocare"

mercoledì 23 maggio 2012

... Home sweet home?


 
Qual è quel posto che chiamiamo casa? Quello in cui ci togliamo le scarpe o quello in cui c’è qualcosa, seppur minima, che ci strappa un sorriso? Ed ha senso chiamarla ancora casa se ci lascia totalmente indifferenti e lì ci vengono a trovare prevalentemente i ricordi? Il momento di cambiare è quello in cui tocchi il fondo o quello in cui non riesci più a sentire il tocco di nulla? L’altro giorno ad un amico ho chiesto se, durante la sua giornata, avesse sorriso almeno una volta solo per se' stesso. Senza che il sorriso fosse di circostanza, dovuto o forzato da agenti esterni. Quale linea della vita può indicarci la linea di separazione tra quello che dobbiamo alle convenzioni sociali e quanto dobbiamo alla nostra esistenza? Cosa ci starà ad indicare il momento in cui bisognerà dire “alla malora il resto, questo momento non ripasserà per essere vissuto, il momento di viverlo è adesso”? E i progetti, le rinunce, servono a dare significato e continuità al senso di vivere o la vita ce la stroncano e basta, logorandola a poco a poco ogni giorno, con costanza? Quanto aggiungono? E quanto sottraggono, i progetti? Seneca affermava che nessun vento è favorevole all’uomo che non sa verso quale porto sia diretto. Vent’anni fa, oggi, uccidevano un grande uomo che per un progetto ha sacrificato la sua vita. La notizia la ricordo ancora, non capivo la gravità dell’accaduto, non avrei potuto, ero ancora troppo piccola. Ricordo, tuttavia, esattamente, le reazioni di stupore e di sconforto che quella notizia provocò sui volti dei miei genitori: da quelle compresi chiaramente che qualcosa di grave fosse accaduto. Vent’anni dopo e un credito di riconoscenza dopo per quell’uomo dal volto, nonostante tutto, gioviale, non posso non domandarmi come si sia sentito lui. Conosceva esattamente il porto cui voleva arrivare, tuttavia ha incontrato tante tempeste lungo il cammino ed una, purtroppo, gli è stata fatale. Quello che mi chiedo, però, è se potesse ancora chiamare casa quel posto che gli stava voltando le spalle, quella nazione che lo stava abbandonando come oggi abbandona la mia generazione. Mentre aveva il respiro controllato e la vita sorvegliata, quando ormai di una vita degna della spontaneità connessa a questo nome non poteva più godere, in gabbia, c’erano solo ricordi o anche lo sconforto, a tratti, si faceva strada negli angoli reconditi della sua mente? Si sarà mai sentito in colpa per quella scelta di carriera, trasformatasi poi in scelta di vita anche per i suoi cari, per aver scelto anche per loro? Ma soprattutto, tu, Giovanni, fino all’ultimo, almeno una volta al giorno, sei riuscito a sorridere solo per te stesso?

venerdì 18 maggio 2012

Il quaraqquaquesimo

Da che il mondo esiste le persone si sono sempre distribuite tra due grandi gruppi. Insomma da quando l'uomo ne abbia avuto memoria c'è chi fa e chi, purtroppo per lui, semplicemente parla. Questo equilibrio si mantiene più o meno stabile da secoli, tuttavia gli annali registrano, ahimè sempre più frequenti, casi di soggetti affetti da uno strano morbo: il quaraqquaraqquesimo. Il soggetto affetto da tale morbo, anticamente scoperto e prontamente nominato da un popolo geniale proveniente dalla Sicilia,  colpisce prevalentemente soggetti che, a dispetto delle apparenze, godono di bassa autostima, alta immaturità e una buona dose di arroganza. Mescolate tutto con cura e avrete un chiaro esempio di quaraqquaquà. Se per tali malati fosse creato un apposito reparto come per qualunque altro tipo di malattia infettiva, il problema non sussisterebbe: si applicherebbero semplicemente le logiche del ghetto fino a completa guarigione evitando che i sintomi si diffondano per il pianeta. Il problema è che tale epidemia, paragonabile solo alla Sars e alla Peste Bubbonica, viene piuttosto percepita come un semplice raffreddore, sottovalutandone il potenziale pericolo, per cui agli affetti dal morbo è tranquillamente consentita la deambulazione e il contagio del prossimo. Il problema emerge proprio quando un esemplare affetto da quaraqquaquaquesimo viene a contatto con un sano. In tali casi la comunicazione è pressoché impossibile. Ogni logica umana decade e alla parola viene sostituito il puro istinto poiché l'unico modo per comunicare con un quaqquaraquà è cercare di stabilire un contatto simile a quello che si tenterebbe di instaurare con una scimmia. Affidarsi alla razionalità sarebbe una pura follia poiché il quaqquaraquà ragiona secondo logiche e sentimenti animali. Sì, secondo quelli che il Buddismo considera sentimenti 'volgari' come quanti dettati dalla fame, dagli ormoni, dalla paura. Date a un quaqquaraquà cibo, passera e un guscio e potrà quasi sembrare una persona sana. Il vero problema è che le persone sane con cui vengono in contatto i quaqquaraquà sono, appunto, sane ed in quanto tali NON ragionano secondo le logiche malsane dei quaqquaraquà . Però, per uno strano scherzo della vita, tali sani, potrebbero soffrire delle ripercussioni sulla propria esistenza per colpa del semplice momentaneo contatto con un quaqquaraquà . Di questi soggetti, personalmente, purtroppo, ne vedo sempre di più in giro. Non so se io abbia un radar, se ormai l'epidemia sia incontrollabile o se dove abito ce ne sia particolare concentrazione.Tuttavia deve essere una malattia assai antica se già Gioacchino Rossini nel suo Barbiere di Siviglia ne descriveva le controindicazioni. Magra consolazione per i sani è che, se "la calunnia è un venticello" è pur vero che, essendo questi dotati di intelligenza, a differenza dei quaraqquaquà, troveranno il modo di costruire un aquilone per volarci sopra quando la brezza diventerà tempesta.

martedì 15 maggio 2012

Io? Io voglio morì col dubbio...



“Chi non risica non rosica” “Lo que no corre se recorre” “Chi mangia fa briciole”. Questi solo alcuni dei luoghi comuni che mi sono stati rivolti nelle ultime due settimane. E non si sa perché, tali commenti avevano sempre e comunque un ‘non so che’ di riferimento e velato commento circa la mia condotta. Un modo carino per dire “sei una gentilissima scassamaroni ma ti vogliamo bene lo stesso. Insomma: prima o poi ti stancherai anche tu, ti placherai e tornerai nei ranghi”.
Io, invece, sono circa due settimane che mi ripeto che “Voglio morì col dubbio”. Che cosa voglia dire “voglio morì col dubbio”? Significa che realmente mi auguro di spirare con in gola, come un colpo nella canna di una pistola, una domanda: le corde vocali che si muovono cercando di sollevare l’ennesima, magari cazzata, o forse questione vitale.
Adesso qualcuno, di grazia, mi spieghi che diamine ti rimane da vivere se sulla soglia dei trent’anni ti sei dato tutte le risposte o ti sei appiattito a tutte le richieste del vivere comune.
La Mulino Bianco forse saprebbe rispondermi ma temo sia meglio continui a fare i biscotti e a crescere famiglie nella sterpaia, che, appunto, restano ‘miti’ e poco hanno a che fare con il reale. Infatti, trovatemi un trentenne (esclusi piloti, calciatori, ereditieri e narcotrafficanti. ndr.) che oggigiorno guadagni tanto da poter mantenere un mulino, da aver figliato per quattro e  da potersene fregare del prezzo del gasolio per raggiungere la civiltà dall’idillio. Ma, soprattutto, trovatemi un trentenne che, come sostiene un mio caro consigliere, intrapresa l’ipotesi Mulino Bianco non trovi un amico che, paratoglisi davanti, dica “Ma che sei pazzo??? Esci da questo corpo!!!”.
Adesso, posto che la famiglia Mulino Bianco non esiste, posto che la generazione “Ultimo Bacio” sta dando i migliori frutti della sua epoca, qualcuno mi dovrebbe spiegare: perché fingere risposte serie e appiattirsi a crismi societari se poi si devono fare cazzate? Ma, soprattutto, per quale motivo se nessuno, di fatto, in questo caro mondo, rispetta più i crismi sociali, Muccino docet, perché le ragazze, però, sono rimaste sempre quelle povere sfigate per le quali, superata una certa soglia di età: o ti accasi o se non lo fai
-       o sei zoccola
-       o sei zitella
-       o entrambe
-       o qualche problema ce l’hai

Orologio biologico? Cazzate. Bisogno di protezione? Cazzate. Sicurezza? Cazzate. La parola esatta è ABITUDINE. Ci si abitua a piccoli rituali rassicuranti, allo stesso odore, alla smorfia che fa chi ci sta accanto la mattina quando si sveglia. Ci si abitua a conoscere le abitudini alimentari e comportamentali del nostro vicino, l’orario del messaggio della buonanotte e la voce impostata che cercherà di mantenere al telefono se sarà in sbornia. Ci si abitua. E lasciare l’abitudine fa paura: allora questa fuga dall'incertezza, a un certo punto, meglio renderla legale.
Ma questo non è amore. Questa è comodità. Questo il più delle volte non è un percorso: è un accontentarsi.
E ventisette anni sono troppo pochi per accontentarsi.
Anche trenta lo sono.
Forse anche trentacinque.
Le persone, però, sempre più spesso si accontentano, si abituano e poi sbattono la capoccia per la prima cosa diversa che gli passa sotto al naso.
Allora non domandatevi il perché della crescita esponenziale dei divorzi in Italia.
Qualcuno mi ha lasciato un’immagine stupenda, spero non me ne voglia, ma la riporto anche a voi. Un rapporto d’amore è come vedere le scie di due moto che salgono su una collina percorrendo delle curve. I due piloti sanno solamente che sono abbastanza vicini da sentirsi ma abbastanza lontani da non danneggiarsi. Le persone che stanno a valle, però, possono esattamente vederli in parallelo che salgono. Non c’è uno dei due troppo avanti, non c’è uno che sta dietro, salgono in parallelo superando le curve.
Attorno a me vedo molti attori di biscotti e pochi piloti. I piloti si riconoscono lontano un miglio, hanno la luce negli occhi, la calma nella voce, la sicurezza di chi sa che qualora dovesse cadere in pochi secondi qualcun altro si fermerà, abbasserà il cavalletto e arriverà a soccorrerli. Probabilmente, anche in mezzo alle lacrime di dolore e allo spavento, troveranno il modo e la forza per ridere. Gli attori, invece, sono nervosi, insicuri e temono l’abbandono. Si nascondono se sbagliano e piuttosto che mostrare un proprio errore scappano, o peggio, negano. Le loro litigate saranno epiche, la luce del loro legame brucerà veloce come un fuoco d’artificio in una vasca di ghiaccio per lo champagne.
Quindi, a chi da oggi in poi mi farà domande sulla mia vita, risponderò che “voglio morì col dubbio”. Fosse anche il dubbio supremo di tutti gli innamorati, quel ‘ma tu, mi ami?’ perché vorrà dire che per una vita ho cercato e mi sono circondata di persone in grado di darmi risposte, magari farmi domande, ma di certo persone in grado di non a farmi spegnere a tal punto da non aver domande da fare e risate da non respirare.
Io? Io “voglio morì col dubbio”.