Qual è quel posto che chiamiamo casa? Quello
in cui ci togliamo le scarpe o quello in cui c’è qualcosa, seppur minima, che
ci strappa un sorriso? Ed ha senso chiamarla ancora casa se ci lascia
totalmente indifferenti e lì ci vengono a trovare prevalentemente i ricordi? Il
momento di cambiare è quello in cui tocchi il fondo o quello in cui non riesci
più a sentire il tocco di nulla? L’altro giorno ad un amico ho chiesto se,
durante la sua giornata, avesse sorriso almeno una volta solo per se' stesso.
Senza che il sorriso fosse di circostanza, dovuto o forzato da agenti esterni.
Quale linea della vita può indicarci la linea di separazione tra quello che
dobbiamo alle convenzioni sociali e quanto dobbiamo alla nostra esistenza? Cosa
ci starà ad indicare il momento in cui bisognerà dire “alla malora il resto,
questo momento non ripasserà per essere vissuto, il momento di viverlo è adesso”?
E i progetti, le rinunce, servono a dare significato e continuità al senso di
vivere o la vita ce la stroncano e basta, logorandola a poco a poco ogni
giorno, con costanza? Quanto aggiungono? E quanto sottraggono, i progetti?
Seneca affermava che nessun vento è favorevole all’uomo che non sa verso quale
porto sia diretto. Vent’anni fa, oggi, uccidevano un grande uomo che per un
progetto ha sacrificato la sua vita. La notizia la ricordo ancora, non capivo
la gravità dell’accaduto, non avrei potuto, ero ancora troppo piccola. Ricordo,
tuttavia, esattamente, le reazioni di stupore e di sconforto che quella notizia
provocò sui volti dei miei genitori: da quelle compresi chiaramente che
qualcosa di grave fosse accaduto. Vent’anni dopo e un credito di riconoscenza
dopo per quell’uomo dal volto, nonostante tutto, gioviale, non posso non
domandarmi come si sia sentito lui. Conosceva esattamente il porto cui voleva
arrivare, tuttavia ha incontrato tante tempeste lungo il cammino ed una,
purtroppo, gli è stata fatale. Quello che mi chiedo, però, è se potesse ancora
chiamare casa quel posto che gli stava voltando le spalle, quella nazione che
lo stava abbandonando come oggi abbandona la mia generazione. Mentre aveva il
respiro controllato e la vita sorvegliata, quando ormai di una vita degna della
spontaneità connessa a questo nome non poteva più godere, in gabbia, c’erano
solo ricordi o anche lo sconforto, a tratti, si faceva strada negli angoli
reconditi della sua mente? Si sarà mai sentito in colpa per quella scelta di
carriera, trasformatasi poi in scelta di vita anche per i suoi cari, per aver scelto anche per loro? Ma soprattutto,
tu, Giovanni, fino all’ultimo, almeno una volta al giorno, sei riuscito a
sorridere solo per te stesso?
:-)
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