Alcuni le chiamano regressioni. Altri invece
fughe dalla realtà. Gli psicologi le definirebbero forse come “valvole di
sfogo” per il cervello.
Fatto sta che per quasi tutti gli esseri viventi di
sesso femminile (e non) giunge quel momento in cui, guardandosi vagamente allo
specchio, s’improvvisano improbabili karaoke in playback, shakerandosi in un
movimento sgraziato che potrebbe, vagamente, assomigliare all’atto del ballare.
In quel momento si hanno due anni.
O forse, in quel momento, si è capita
l’essenza della vita.
In fin dei conti, tutti i problemi vengono relativizzati
se posti a confronto con problemi più grandi. Come quando al liceo
l’interrogazione appare un dramma esistenziale e, in seguito, una cazzata
planetaria una volta giunti nel mondo degli adulti e, magari, del lavoro.
Relativizzare.
Allo stesso modo, è solo quando la musica
solletica i timpani da confondere i pensieri che si potrà distintamente sentire
il rumore che fa l’anima.
In quel momento, con i battiti che rombano nelle
orecchie, forse, solo allora, si riuscirà a non raccontare cazzate alla parte
razionale di noi stessi. In quella cascata di felicità e malinconia si sarà
forse realmente sinceri. In quel caos si potrà ascoltare.
Un famoso film suggeriva di ballare ad occhi
chiusi saltando con un braccio teso in aria.
Sono momenti che si vivono e basta. In
silenzio. In solitudine. Con un retrogusto di vergogna. S’intuiscono ma non si
condividono apertamente.
È come la maglietta preferita
dell’adolescenza: vecchia, bucata e stinta ma che non si ha il coraggio di
buttare perché ricorda bei momenti e aspettative in seguito relativizzate.
Rovistando nell’armadio stasera l’ho
ritrovata.
L’ho indossata di nuovo.
Era corta: ma sapeva di buono.
L’ho indossata di nuovo.
Era corta: ma sapeva di buono.