"fino a che non va a segno è tutto da giocare"

domenica 18 dicembre 2011

Circular treasure hunt...

"... Ai giovani che venivano da lui per la prima volta, Rabbi Bunam era solito raccontare la storia di Rabbi Eisik, figlio di Rabbi Jekel di Cracovia. Dopo anni e anni di dura miseria, che però non avevano scosso la sua fiducia in Dio, questi ricevette in sogno l'ordine di andare a Praga per cercare un tesoro sotto il ponte che conduce al palazzo reale. Quando il sogno si ripeté per la terza volta, Eisik si mise in cammino e raggiunse a piedi Praga. Ma il ponte era sorvegliato giorno e notte dalle sentinelle ed egli non ebbe il coraggio di scavare nel luogo indicato. Tuttavia tornava al ponte tutte le mattine, girandovi attorno fino a sera. Alla fine il capitano delle guardie, che aveva notato il suo andirivieni, gli si avvicinò e gli chiese amichevolmente se avesse perso qualcosa o se aspettasse qualcuno. Eisik gli raccontò il sogno che lo aveva spinto fin lì dal suo lontano paese. Il capitano scoppiò a ridere: "E tu, poveraccio, per dar retta a un sogno sei venuto fin qui a piedi? Ah, ah, ah! Stai fresco a fidarti dei sogni! Allora anch'io avrei dovuto mettermi in cammino per obbedire a un sogno e andare fino a Cracovia, in casa di un ebreo, un certo Eisik, figlio di Jekel, per cercare un tesoro sotto la stufa! Eisik, figlio di Jekel, ma scherzi? Mi vedo proprio a entrare e mettere a soqquadro tutte le case in una città in cui metà degli ebrei si chiamano Eisik e l'altra metà Jekel!". E rise nuovamente. Eisik lo salutò, tornò a casa sua e dissotterrò il tesoro con il quale costruì la sinagoga intitolata "Scuola di Reb Eisik, figlio di Reb Jekel". "Ricordati bene di questa storia - aggiungeva allora Rabbi Bunam - e cogli il messaggio che ti rivolge: c'è qualcosa che tu non puoi trovare in alcuna parte del mondo, eppure esiste un luogo in cui la puoi trovare"..." 
(Martin Buber)

POST IT: Mai cercare altrove quanto puoi trovare in te stesso...

lunedì 28 novembre 2011

Whatever will be, whenever will be, have a safe travel in your life...

"... La fretta non ha mai pace...
Assapora ogni cosa di quella terra, madre di tutte le
terre, che attraverserai... 
Fermati, talvolta, ed ascolta i suoi silenzi carichi di
mille parole... 
Togli le scarpe e, a piedi nudi, trai la sua forza ed energia... 
Lei ti proteggerà e ti guiderà...
Buon viaggio uomo, 
perchè solo chi è uomo può fare
ciò che tu ti appresti a fare..."

(Proverbio Kenyota)

domenica 20 novembre 2011

Life is life


Orecchie che fischiano, pensieri che passano. Coincidenze. Riflessioni. Amici persi, amici ritrovati, nuovi amici. Tutto questo mi sembra una giostra impazzita. Una di quelle che potrebbe essere uscita tranquillamente da un romanzo di Stephen King o forse da qualche grottesca commedia alla Woody Allen. In fin dei conti noi non siamo tanto differenti dagli atomi. Ci incontriamo, ci scontriamo e se il legame non è abbastanza forte, allora ci lasciamo. In fin dei conti siamo fatti di atomi, perché dovremmo comportarci diversamente? Investighi, ti interroghi, filosofeggi, fai progetti di muri nuovi su cui costruire nuovi orizzonti. Compri persino la vernice e lo stencil. Ripeti a te stesso che la svolta è vicina e accanto a questo pensiero metti un post-it con la variabile sofferenza da diminuire. Giorno dopo giorno. Come un programma dimagrante. Poi in due secondi realizzi che non serve a nulla perché il software statistico che guida la tua, di vita, fa come dannatamente gli pare. Se la ride mentre tu cerchi risposte ad eventi assolutamente assurdi e impensabili. Le probabilità sono da super Enalotto. Invece è solamente la tua vita. Forse, anzi sicuramente, avresti preferito essere milionario piuttosto che andare a letto con l’ennesimo quesito senza risposta. Ma tutto ciò, pare abbia affermato una volta qualcuno, “è solamente la vita”.

venerdì 30 settembre 2011

The T-shirts don't fit anymore...

Alcuni le chiamano regressioni. Altri invece fughe dalla realtà. Gli psicologi le definirebbero forse come “valvole di sfogo” per il cervello. 
Fatto sta che per quasi tutti gli esseri viventi di sesso femminile (e non) giunge quel momento in cui, guardandosi vagamente allo specchio, s’improvvisano improbabili karaoke in playback, shakerandosi in un movimento sgraziato che potrebbe, vagamente, assomigliare all’atto del ballare. 
In quel momento si hanno due anni. 
O forse, in quel momento, si è capita l’essenza della vita. 
In fin dei conti, tutti i problemi vengono relativizzati se posti a confronto con problemi più grandi. Come quando al liceo l’interrogazione appare un dramma esistenziale e, in seguito, una cazzata planetaria una volta giunti nel mondo degli adulti e, magari, del lavoro. 
Relativizzare.
Allo stesso modo, è solo quando la musica solletica i timpani da confondere i pensieri che si potrà distintamente sentire il rumore che fa l’anima. 
In quel momento, con i battiti che rombano nelle orecchie, forse, solo allora, si riuscirà a non raccontare cazzate alla parte razionale di noi stessi. In quella cascata di felicità e malinconia si sarà forse realmente sinceri. In quel caos si potrà ascoltare.
Un famoso film suggeriva di ballare ad occhi chiusi saltando con un braccio teso in aria.
Sono momenti che si vivono e basta. In silenzio. In solitudine. Con un retrogusto di vergogna. S’intuiscono ma non si condividono apertamente.
È come la maglietta preferita dell’adolescenza: vecchia, bucata e stinta ma che non si ha il coraggio di buttare perché ricorda bei momenti e aspettative in seguito relativizzate.
Rovistando nell’armadio stasera l’ho ritrovata. 
L’ho indossata di nuovo. 
Era corta: ma sapeva di buono.

domenica 11 settembre 2011

Next stop... best stop! Ironic, isn't it?



Avete mai pensato a quante situazioni ironiche si verificano nell’arco di una giornata e quante di esse siano insite all’interno della natura umana? Ad esempio, personalmente, mi chiedo come sia possibile che le papille gustative che riconoscono i veleni, sulla lingua di un essere umano, siano quelle posizionate più in fondo, raggiunte le quali è impossibile sputare il veleno e si sarebbe, di fatto, condannati a morte. È come il tramonto su un’autostrada mentre sfrecci a tutta velocità verso casa, così bello da farti rischiare la distrazione e lo schianto. È come l’imperituro gioco delle relazioni che non sono mai simmetriche ma sempre complementari e, per giunta, con timing sbagliati, il più delle volte. È come il linguaggio umano, un codice che il più delle volte annulla la forza di quanto si sta provando nel momento stesso in cui si esprime tale sensazione a parole. È ironico come dire addio senza volerlo dire. È duro come volere qualcosa e andare esattamente nella direzione opposta, facendo scelte che allontanano dalla meta invece di avvicinare. Del resto Simon stesso affermava che “La razionalità non assicura intelligenza. Assumere che le persone hanno spesso ragioni coerenti con ciò che fanno è affatto differente dall’assumere che esse sicuramente selezionano quelle azioni che sarebbero oggettivamente ottimali alla luce dei loro obiettivi”. La contraddizione ci rende ironici, l’ironia ci rende deboli, la debolezza ci rende umani.

domenica 21 agosto 2011

Back to the waves...

Tornare alle onde, a quell’universo apparentemente banale e tanto unico che può comprendere solo chi lo abbia vissuto. Tornare a quel vento freddo che ti entra dritto nel collo, provocandoti un brivido che attraversa la schiena e ti fa sentire vivo. Tornare a quell’Oceano tanto immenso che ha la voce della coscienza, del te più profondo, a cui proprio non puoi mentire. Tornare a stare seduto su un minuscolo pezzo di resina nel mezzo di una potenza, sentire quella forza e la tua nullità, guardando un fondale cieco che fa tanta più paura quanto più complicato è il tuo Es.
Tornare ad aprire una porta a perfetti sconosciuti con la voglia e il presentimento che, ben presto, saranno la tua famiglia, o almeno una parte irremovibile e indimenticabile della tua vita. Quel tipo di persone delle cui storie, dei cui insegnamenti, racconterai ai tuoi nipoti. Lasciare a casa tutto: lavoro, preoccupazioni e apparenze, per approdare, poi, in un posto sospeso nel tempo, in cui non ricordi giorni ed ore se non quando il tempo, inesorabile, viene a chiedere il conto per la partenza.
Capire che le chiacchere che solitamente ti circondano, il “chi sei” “cosa fai” e più o meno direttamente il “cos’hai”, bhè, sotto l’ala protettrice di quel vento umido, non servono a nulla. E non interessa nemmeno di esser magri o grassi, con la manicure perfetta o con la muta più “figa” perché quello che sei lo dimostri in un sorriso e nel coraggio di affrontare quell’immensità. Tutt’insieme ma al contempo ognuno per sé.
Perché quando fai surf non stai solo praticando uno sport, stai imparando come maneggiare la tua vita. E l’Oceano te lo insegna subito. Non ti fa sconti, non è delicato, non ti aspetta, ma, ben presto, ti ritrovi a parlare con lui come si fa con un amico: con il tuo migliore amico.
Allora comprendi come un passo in più possa significare uno schiaffo in faccia da un’onda che s’infrange, come a volte, certe onde, siano più grandi di te e allora sia necessario puntare i piedi per non indietreggiare, come altre volte, quelle stesse onde, ti possano passare sopra senza recarti danno, mentre altre volte ancora richiedano apnea e mani in testa, per pararti da quello che credevi il tuo appiglio più solido: la tua tavola. Spesso, però, capita anche che l’unica cosa che rimanga da fare sia sedersi nel mezzo di quella distesa d’acqua, sentire il freddo di quel vento gelido che ti attraversa la schiena, la pelle d’oca, i muscoli che si contraggono e... aspettare. Aspettare l’onda perfetta o almeno la migliore della giornata. Senza dubbio, quella che ti consenta di stare in equilibrio sulla tua tavola da surf o, molto più probabilmente, solo sulla tavola della tua vita.

mercoledì 3 agosto 2011

Depende: y tu da què dependes?

Certe situazioni sono come la prima sigaretta. La si fuma senza un vero motivo, al massimo sull’onda di un attacco d’incoscienza, o per dimostrare, fatalmente, qualcosa al mondo o ai prossimi. Lo si fa per ripicca o per ribellione, alcuni lo fanno perché si annoiano, altri per sentirsi “fighi”. Taluni per sfidare il pericolo, altri per caderci, da coglioni, per tutta una vita. La prima boccata di sigaretta fa schifo. Tuttavia 90 su 100 la si proverà di nuovo poiché, se tante persone lo fanno, la “figata” sarà da qualche parte e qualcosa nelle “istruzioni” deve essere andato storto. Insomma basta applicarsi e “la figata” arriverà. Lo stesso accade con le relazioni, soprattutto di natura amorosa. Tutti raccontano che l’amore è una cosa meravigliosa e terribile allo stesso tempo, che ti rincoglionisce ma ti rende felice, che se sei innamorato sei più bello, che se, invece, hai il cuore a pezzi sei come il tizio della pubblicità progresso anni 90’ con l’alone viola attorno: sei uno sfigato repellente.
La prima sigaretta è calda e avvolgente, ha il brivido dell’adrenalina e la paura di essere scoperti ma la frenesia della trasgressione. È impacciata, insicura e sbruffona: il tutto allo stesso tempo. È far finta di avere sotto controllo la situazione e sé stessi.
Per favore, trovatemi le differenze con un primo appuntamento, di grazia.
Quando fumi la prima sigaretta non sai quanto ti possa far male, quanto giorno dopo giorno ti possa uccidere, quanto ti possa ingiallire i denti, peggiorare l’alito, mutare le abitudini caratteriali, impregnare la pelle tra l’indice e il medio. Oppure lo sai. Ma lo ignori. Quando sorridi e ti senti leggero e appealing, però, non sai nemmeno quanto ti possa far male quell’appuntamento per cui sul momento provi adrenalina, insicurezza, frenesia. Non sai quanto quel prossimo, in quel momento ancora un estraneo, potrebbe diventare familiare, entrando nella tua vita e cambiandoti colore, atteggiamento, sensazioni e piani. Del resto ci si stava uscendo magari senza un vero motivo, in preda ad un attacco d’incoscienza o al massimo per dimostrare qualcosa al mondo o a noi stessi, no?
La prima sigaretta, il più delle volte, finisce in un attimo e ti lascia il vizio per tutta la vita. E quella sensazione del primo appuntamento… quella in quanto tempo brucia, il più delle volte?

Il tango del piccolo chimico...

La razionalità è un’arte e la fiducia un dono… e le relazioni che durano sono per le persone che sanno aspettarsi. Sapete, alla fine della giornata c’è quasi sempre un momento in cui tutte le parole, frasi, espressioni e gesti che mi hanno colpito ritornano in mente, salgono a galla. Come se il mio cervello fosse un ruminante, oppure un boa che inghiotte la vita e dopo la rimastica a piccoli morsi. Oggi la frase che mi è tornata in mente è stata una considerazione, che non pensavo nemmeno potesse partorire in maniera così lucida il mio cervello: “Le relazioni con gli altri sono come passi di tango, in cui un tempo sbagliato porta ad un piede pestato. Si deve guardare negli occhi l’altro ballerino, poiché il tango ballato male assomiglia al pogare ma ballato bene è come se si levitasse sul terreno”. Incredibile quali illuminazioni possano giungere dal glucosio attaccato allo stecco legnoso di un gelato confezionato, no?
Ferma, lì, in quel momento di lucidità il mondo e le mie stesse contraddizioni (chi non ne ha?) mi apparivano così esilaranti. Il mondo. Un immenso ammasso di formichine con problemi futili che si agitano per una vita e corrono e si scuotono e s’impegnano alla ricerca di qualcosa che qualcuno, una volta (mannaggia sua!) ha chiamato “felicità”.
Allora spendiamo tempo a valutare, a pensare e a calcolare cose e situazioni cui poco tempo dopo ci riferiremo come “Di cos’è che si trattava?” oppure “Com’era quella storia? Com’è che era andata? Aspe’ che non ricordo”. Oppure abbiamo la reazione inversa: trasformiamo in mito circostanze irrilevanti e persone che sono delle emerite nullità. Dicono sia l’affetto e la gioventù. Io credo siano le illusioni che, tanto più crescendo, vogliamo darci. Quei sogni che non fanno svegliare e che lasciamo al nostro cervello per convincerci, con tutti noi stessi, che qualcosa di positivo ci sia dopo il lavoro, la guerra, il deficit (ma qualcuno, di grazia, mi sa spiegare dove sia il credito? Qualcuno deve pur averlo, perdinci!) i folli fondamentalisti che pianificano carneficine, il comportamento lunatico del genere umano, il traffico e l’addebito per commissione sulla carta di credito o sul bollettino postale.
E allora si aspetta e si corre, si parte e ci si ferma, si sorride quando invece si vorrebbero dare le testate e scuotere le persone declamando “Esci da questo corpo! Che cazzo dici?!?”. Sì, parlo proprio di quelle persone che non sanno fare una cosa e ti dicono che sei una schiappa, che non ne hanno idea e vogliono fare i maestri, che hanno una crisi esistenziale e dicono che sei tu quello confuso, di quelle che non parlano e cercano di convincerti che sei tu quello con problemi di comunicazione, di quelle che sono immature e coglione e sei tu quello serioso. Insomma di quelle che tolleri perché “siamo in tanti su questo pianeta, in qualche modo si dovrà pur fare” perché “il mondo è bello perché è vario” perché “la mosca bianca è sempre un paragone” o perché da bambino non t’hanno regalato il piccolo chimico allora da grande fai esperimenti sociali.
Alla fine di questo circo, poi, con calma, con difficoltà, c’è un momento in cui ci si placa, si viene a compromessi col mondo, si smette di agitarsi e di fuggire: magari ci si siede e si cercano alibi o conferme. Due secondi dopo, consapevolmente o inconsapevolmente, si ricerca nuovamente la felicità… sta’ stronza! Che poi, esisterà davvero oppure è come la leggenda di Billy Barattolo e Paul Mc Cartney?

sabato 23 luglio 2011

La sottovalutazione delle cozze

 
Già, il problema alle volte è proprio perdersi in quella piccola scritta “L’amore è una scurreggia nel cuore” tralasciando lo spettacolo meraviglioso che c’è dietro. Come con le cozze: brutte fuori e buonissime dentro. Come con le ostriche: affilato e duro il guscio, tanto splendente e rotonda la perla all’interno. Il problema è che troppo spesso con le persone ci si comporta allo stesso modo. È sempre più raro che impattando contro il prossimo ci si chieda “Cosa lo ha portato qui? Cosa lo rende così?”. Allora abbiamo un mondo pieno di perle non scoperte e gustosi frutti di mare che nessuno consce, mentre scintillanti conchiglie vuote invadono le strade e le nostre vite, derubandoci dei gesti più affettuosi, dei pensieri più profondi, delle energie necessarie ad inseguire un sogno.
Ma fino che a punto, e per quanto tempo, sarebbe giusto aspettare? Quante chance dare al nostro dirimpettaio prima di includerlo in una qualsivoglia forma di catalogazione? I cataloghi il più delle volte sono rigidi, poco funzionali e abbastanza aridi, tuttavia, ne abbiamo bisogno per venire a patti con la nostra vita. E nel frattempo, tra una catalogazione e l’altra, ci perdiamo i dettagli, ci perdiamo i racconti, ci perdiamo quello che si sente dallo stomaco: insomma, ci perdiamo la vita. Le cose più semplici, relativamente ad alcune circostanze, sono le più dannose. Per esempio, camminare con le spalle incurvate può sembrare una posizione comoda ma a lungo termine crea danni alla postura. Oppure le ballerine a suola piatta: a fine giornata si hanno il mal di schiena e le caviglie gonfie (senza considerare che donano realmente solo allo 0,001% delle donne del pianeta). Ancora, l’alcool: sembra piacevole in compagnia ma la mattina seguente i disturbi da assunzione sono i peggiori regali che la vita ti possa fare.
Considerando questi elementi: perché fermarsi ad analizzare una persona in maniera frettolosa e sommaria, in base alle prime impressioni, magari catalogandola nella cartella sbagliata... perché anche questo comportamento non dovrebbe rivelarsi, anch’esso, pericoloso e mortale?
 

domenica 12 giugno 2011

A Newton una mela... ad altri una moka?


 
“Ho poche pretese, svariati svarioni… mordo, canto, guardo solo quando penso che non cambierò”. Quello che fa più paura ad alcune persone è l’ipotesi di una vita senza cambiamento. Altre ci sguazzano felici in questa prospettiva. Lo so, pensieri monotematici su questo blog, liberi di cambiare indirizzo, ma, credo, che alla fine della storia è su questo che rifletta il mondo, no? Almeno parte di quel mondo che si ricorda di avere un cervello anche per altro, oltre che per far spazio tra le orecchie. Referendum, corsi, miglioramenti, cambi di casa, cambi di macchina, cambi di lavoro ed iscrizioni in palestra. Tutto per evitare, o per credere di evitare, quella vita che a volte sembra troppo monotona. Allora si cambia vestito, rossetto, taglio di capelli per non cambiare quanto più difficile: quello che c’è dentro. Perché, sullo sfondo del viaggio, dietro il finestrino, quello che va cambiato è il paesaggio e non la tappezzeria della macchina. Ma per viaggiare lo si deve volere, si devono preparare i bagagli facendo una cernita, si devono consumare addii e dire “arrivederci”, si deve mettere il naso fuori dal recinto. Si deve sentire il freddo della solitudine e la paura dell’ignoto. Allora meglio una stalla, un pasto sicuro e il calore del gregge. Il capo del branco non a caso è quello che sta da solo, quello che fa il primo passo. E nessuno ha mai detto che sia stato facile. Perché a fiutare il terreno può darsi anche che in una trappola si inciampi, allora che fine indegna sarebbe morire con una zampa incastrata in un pezzo di metallo. Più o meno come, per un uomo, morire per un trauma celebrale causato da una moka caduta da uno scaffale troppo alto. Segnando il percorso si può sbagliare, si può morire da stronzi o da eroi, ma, per dirla con le parole di Scott Adams “La creatività è permettere a te stesso di sbagliare. L’arte è la capacità di decidere quale errore tenere”. In fin dei conti, se sei il signor Bialetti, puoi anche permetterti di morire per quella dannata moka con cui hai rivoluzionato il mondo del caffè, no?

sabato 21 maggio 2011

Last request? Una camomilla, grazie...


 
“Rallenta e distenditi, ricorda che siamo solo io e te”. Secondo uno strano preconcetto siamo portati a credere che Paolo Nutini, in questa canzone, si rivolgesse ad una donna. E perché non alla propria anima? Quante volte avete rivolto a voi stessi le medesime parole prima di addormentarvi? Un monologo. One man show. Perché no? Momenti di scelte e cambiamenti, il cuscino come un’allettante prospettiva e al contempo come un macigno. Potreste svenire dal sonno ma qualcosa, come dei rumori di sottofondo, ronzano nella vostra mente e vi fanno sembrare piuttosto simili ad un’upupa collassata su un materasso. Lì, con la luce soffusa di qualche lampione che filtra attraverso la vostra finestra, percependo vagamente la discussione che si sta svolgendo in strada (perché anche in piena notte, per strada, c’è sempre qualcuno che ha voglia di discutere alle ore più impensabili e per i motivi più assurdi e insensati) lì, con voi stessi, improvvisate discorsi degni di un autore teatrale. In preda all’insonnia constatate persino, talvolta, di essere più simpatici, auto-ironici, passionali e perspicaci dell’altra vita alla luce del sole. “Sì, dai, domani si risolve tutto, ora mettiti a dormire e scrollatelo dalle spalle”. E lo stomaco si risveglia, facendovi presente di essere a secco da troppe ore dall’ultimo pasto. “Ok, alla luce del Sole tutto apparirà più chiaro. Come dice la nonna, se si chiude una porta si apre un portone”. E il fianco su cui siete coricati diventa scomodo. Meglio cambiare lato. “Oh, alla peggio, tanti cari saluti, anche se non porta a nulla sarà stata un’esperienza”. Le occhiaie iniziano a pulsare, gli occhi attuano tutte le tecniche fisiologiche in loro possesso per ribellarsi, le vene pompano il sangue a mo’ di cartello a intermittenza che cita “Dormi, diamine, dormi! Basta con le pippas mentali!”. Quando le lancette cominciano a crescere, nella vostra mente, il rumore di sottofondo è ormai diventato una sirena dei pompieri, nonché uno scomodissimo compagno di letto. Ormai siete talmente svegli che avrebbe quasi senso uscire a fare una passeggiata. Il giorno seguente, un pronostico piuttosto affidabile quoterebbe cattivo umore, istinti distruttivi nei confronti di congegni tecnici con funzioni di allarme sveglia, barili di caffeina a carico (perché siamo tutti un po’ Mary Shelley dentro, quindi non essendo sufficiente una notte, vogliamo creare il bis per la sera a venire, vero?), chili di correttore, amnesia prematura, un caos pari all’istante seguito al big bang ma, soprattutto, zero soluzioni o risoluzioni talmente banali da poter essere confuse con i consigli sulla scatola dei cereali che, per il bruciore di stomaco, quella mattina, potreste non aver mangiato.
Alla luce di questo breve sproloquio, siete ancora convinti che il caro Paolo si rivolgesse a una donna? Ma, soprattutto, vi sorprendete che poco dopo abbia scritto una canzone dal titolo “new shoes”?

mercoledì 11 maggio 2011

Va tutto bene...

“È stato facile, non lo è stato mai”. Negare, negare, fortissimamente negare. Nascondersi dietro l’evidenza per negare che siamo fragili esseri sociali, sensibili alle relazioni che instauriamo e alle onde emotive che ad esse conseguono. L’equivalente del “va tutto bene” mentre tutto sta finendo in frantumi. La circostanza curiosa è che coloro che pronunciano queste parole il più delle volte sono realmente convinti delle proprie affermazioni. Gli psicologi la definirebbero “fase della negazione”. Negazione di cosa poi? Di essere esseri umani e di innalzare barriere a nostra difesa? La stessa fisica postula che ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria. Partendo da tale presupposto, è da condannare in maniera tanto severa chi, per preservarsi, cerca di affrontare onde d’urto meno violente, affermando, per quanto possibile, che “va tutto bene”?

domenica 8 maggio 2011

Profonde comete fugaci


Non è il quanto ma il come. Vi siete mai chiesti perché talvolta le parole di uno sconosciuto o di un conoscente sono più folgoranti di quelle pronunciate dalle persone che ci vivono accanto? Visione d’insieme, caso, sano egoismo o cinismo sdoganato. Forse un po’ di tutto ciò alla base dell'attenzione che concediamo a questi soggetti. Siete su un treno, sul vostro scomodo seggiolino impolverato, mal imbottito, e la frase del vostro chiassoso vicino di viaggio che parla al cellulare si rivela la chiave per risolvere una situazione in cui siete impantanati da tempo. Oppure in coda al supermercato, con le ruote del carrello del cliente retrostante che vi solleticano le calcagna. Lì, tra puzza di sudore e minuti interminabili un sorriso inatteso, una piccola gentilezza o una mezza frase vi cambiano la giornata.
Poi ci sono quelle persone che non conoscete, o che conoscete a mala pena, che hanno inconsapevolmente fatto molto per voi, cui siete affezionati senza saperne il perché. Affermazioni, queste mie, etichettabili da taluni come pressapochiste, tuttavia, credo che sia proprio in quest’ultima categoria di rapporti, nelle profonde amicizie fugaci, che sia inespresso il germe poi sviluppato dall’amicizia, come se ne fosse il concentrato della vera essenza. Senza parole, senza certezze: così si sviluppano questi rapporti. È solo una questione di fiducia e di pelle, che alla fine delle elucubrazioni mentali sono quegl’input che ci spingono verso gli amici nel momento del bisogno, nel momento dell’emozione.
Del resto le stesse stelle, per quanto solide, stabili e affidabili da secoli, solo in determinate circostanze sono visibili e catturano la nosta attenzione mentre le comete, passeggere e fatue, ci lasciano sempre con in naso in su, gli occhi spalancati e qualcosa da ricordare.

domenica 17 aprile 2011

Love makes more ruins than hate...


Mio nonno spesso ripeteva qualcosa che si potrebbe riassumere nel pay-off “Love makes more ruins than hate”. Rovine. Quasi tutte le storie d’amore con la “S” maiuscola hanno avuto l’aiuto della scenografia di qualche rovina, di qualche castello, di qualche arco, di qualche ponte. Tutte vicine all’acqua o sotto la neve o nel mezzo di un diluvio. Baglioni cantava “lungo il Tevere che andava lento lento”, Shakespeare si appellava ad un balcone, Rugantino lo visse attraverso le sbarre di un’antica prigione. In Toscana sono state ambientate lungo l’Arno, in Campania all’ombra del Vesuvio o sopra la collina di Posillipo, dall’alto di un precipizio della Costiera Amalfitana o su una spiaggia di quella Cilentana sotto lo sguardo millenario di qualche colonna greca. La Romagna ha i suoi falò sulla sabbia sottile dei lunghi lidi Adriatici e il Salento li vive anch'esso sul mare ma accompagnati da una brezza marina. La Sicilia ha i suoi templi a fare compagnia agli innamorati, diversamente scogli silenziosi che fanno da pretesto a contatti fugaci. La Liguria si appella ai suoi porti e alle mille storie che vi sono passate. Non da meno il Veneto che dell’acqua e delle pietre ha fatto il suo mito. E al termine di queste riflessioni mi sono domandata: laghi lombardi esclusi, Milano, che rovine fornisce come scenografia e supporto a giovani che volessero dichiararsi? E' davvero possibile che un Naviglio, una “Madunina” o un Arco delle torture abbiano lo stesso fascino? A quale “Ponentino”, a quale vista o suggestione possono affidarsi gli amanti milanesi? Sarà la percezione ovattata dell’infatuazione o qualche giardino nascosto a me ignoto ma, se ancora famiglie esistono a Milano, una location dovrà pur esserci per tali questioni. Diversamente si dovrebbe davvero, a malincuore, credere che sopra questa città, che ha dato inizio tanto male, sia da sempre regnato odio.

domenica 6 marzo 2011

"Take it easy..."

“Perché? Perché la vita è sanguinare?” citava una canzone… perché bisogna pensare "ad altro"? Perché pensare fa paura? Perché? “Why”? Perché stiamo lì, sempre, pronti, sotto un riflettore e al contempo cagati da nessuno in questa vita? Ok, oscillare tra la noia e il caos fa parte del gioco, ma possibile che in certi posti del mondo debba portarsi a certi estremi? “Take it easy”. Sarebbe forse più facile se solo non fosse così difficile in certi angoli di mondo che le statistiche designano come privilegiati. In quegli angoli di mondo dove giorno dopo giorno ti frantumano speranze e sogni, in cui la vera scommessa è essere ancora quello che vorresti e non quello che vorrebbero. In cui guardarsi allo specchio e non farsi schifo per qualche ragione è privilegio di pochi. Quelle parti di pianeta in cui ti senti estremamente fortunato e al contempo immensamente arrabbiato e impotente. Parti di Terra in cui l’incredulità è all’ordine del giorno, come il doping che ti ammazzerà, quel caffè che è socialmente accettato insieme a tanti altri vizi. Mio zio non fumava, non beveva, pagava le tasse, aveva una pensione e un posto di lavoro fisso. È morto d’infarto a causa di una grande gioia. Forse a me non resta che sperare, come in una battuta di Bridget Jones, che il cancro mi ammazzi prima del dispiacere per la vista attonita e impotente dello sgretolamento della civiltà più aristica e acculturata del mondo.

martedì 22 febbraio 2011

Snapshot

Coincidenze, associazioni mentali, allineamenti astrali. Chiamateli come vi pare. Vi è mai capitato di vedere qualcosa ed avere un flashback? Ricordare esattamente il momento, il giorno, l’ora, la riga e le parole? Alcuni la chiamano memoria fotografica. Io preferisco la definizione “qualcosa che ti ha segnato”. Una settimana fa, nero su bianco, un nome che aggancia qualche sensazione familiare. Una frase che riecheggia nella mente. Via, su Google, a cercare la provenienza di quelle parole che danzano nel cervello insistenti ed imperturbabili. Poi tutto torna: Hanif Kureishi, Goodbye mother, la piccola libreria del corso, i sanpietrini, le case basse, il freddo invernale e l’attesa di qualcuno o di qualcosa che oggi nemmeno contano più. La ricerca di un riparo, il bighellonare tra mille titoli, i conti con il tempo, il profumo della carta stampata di fresco e quel titolo banale ma magnetico su una copertina lilla e salmone. La copia di allora se la sono portata via quel qualcuno e quel qualcosa che oggi nemmeno contano più. A me ieri è arrivata la nuova, da qualche avanzo di magazzino a prezzo scontato, dopo una settimana di attesa. Aprendola, dopo dieci anni, ho ritrovato quelle parole, esattamente dove le ricordavo, come una Polaroid:
“Se pensi sia difficile trattare con i vivi, sappi che con i morti può essere anche peggio.” 
“[…] gli avevano insegnato che le donne vogliono fuggire. Se non potevano fuggire, ti odiavano per averle costrette a rimanere.” 
“Fu allora che capì che non si odiano le persone più terribili, ma quelle che ci confondono di più.”.
Per queste tre massime credo che le 12.000 lire di allora siano state un ottimo investimento. 
Grazie Hanif.

giovedì 17 febbraio 2011

La grazia negli occhi e la bellezza nei pensieri…

Qualche anno fa, davanti a una platea di donne, feci una promessa. Promisi che avrei preso il loro testimone. Promisi che non avrei lasciato cadere nel dimenticatoio tutti i loro sforzi. Promisi che io sarei stata le loro gambe e le loro braccia nel futuro, sebbene loro, quelle stupende signore agé, anche con un bastone dimostravano di avere più forza di me, nonostante il quadruplo degli anni. Quelle donne erano le partigiane che avevano combattuto lungo la Linea Gotica durante la seconda guerra mondiale. Quelle donne erano state bellissime adolescenti e affascinanti trentenni. Quelle donne erano donne cui una settantina scarsa di anni fa era stato chiesto di rimanere in silenzio. Anche al tempo del nazismo, a quelle donne, soldati tedeschi avevano chiesto di stare zitte, mute, chiuse in casa. Era stato chiesto loro di non guardare e di non agire, poiché erano creature così fragili, perché la politica non era affar loro, perché al di là di tutto erano… donne. Quello che chiedono oggi è solo una forma di silenzio diverso. Ora, come allora, si chiede alle donne di stare zitte, di essere piacenti, di non esprimere la propria opinione. Il Ciel non voglia tanta brutalità sulla bocca di creature che dovrebbero essere aggraziate, ordinate, dal sorriso splendente e possibilmente… rifatte o tirate! Che non si noti che la manicure non è perfetta, che atrocità, che non si scorga che, quelle donne, oltre a lavorare, possano portare avanti la gestione di una casa e magari di una famiglia o di una relazione affettiva: non c’è scritto nelle favole, vero? Nessuno, soprattutto quelle partigiane, si sarebbe mai augurato dopo settant’anni di dover ricordare alla società principi così basilari per una democrazia. Nessuna di quelle stupende donne credo si sia sentita meno femminile, sgraziata o solamente meno seducente con le mani nel fango, incrinate dal gelo, provate dalla fatica. Nessuna, poiché erano consapevoli che la propria bellezza, il proprio fascino, derivasse dalla loro quotidianità, da quello che erano ma, soprattutto, da quello che facevano e da ciò per cui combattevano. Guardatele, adesso, oggi, quelle donne, quelle partigiane, dite se non hanno ancora la stessa bellezza che emana dagli occhi. L’emancipazione, è vero, non è riposta soltanto nelle quote rosa e rischia di capitolare davanti agli estremismi, ma per certo sta nel rispetto della forza insita nel cromosoma X, in quella forza che non svanisce con la vecchiaia e che più che visibile è percepibile. Gentile coetanea, se preferisce, se più le aggrada, per essere scesa in piazza domenica scorsa, mi etichetti pure come “sgraziata”, “sovversiva”, “antiquata” o mi definisca “una cozza” piuttosto che “una sirena”. Dopo averlo fatto, si faccia e faccia a tutta la popolazione femminile italiana un favore, vada ad incontrare le donne che hanno fatto la storia di questo paese, quelle che la storia l’hanno fatta sul campo, prima di etichettare, oggi, quelle donne che tutti i giorni, sul campo, fanno la storia di questo paese.

sabato 12 febbraio 2011

Atlantide o la scialuppa?

 
“Whatever will be, will be” ma cosa “will be”? Alle volte il problema non è da dove si viene ma dove si va. C’era un tempo, come nelle fiabe. C’era un tempo in cui per capire le persone bastava una stretta di mano e uno sguardo d’intesa dritto negli occhi. C’era il tempo in cui il motto non era “frega il prossimo tuo come lui frega te” e in cui i sorrisi erano sociali. C’era e c’è. Ancora, superstite in certe specie protette di persone e in certi posti del mondo ai limiti del vecchio continente. C’era un tempo in cui avere un cervello, osare, fare esperienze, cadere e riuscire a rialzarsi, assumersi le responsabilità era quello che ci si aspettava che i giovani facessero. Non ci si aspettava soldatini di latta ma guerrieri indiani. Non Ferrari ma affidabili e solide Ape car. Un tempo in cui il “divide et impera” di Cesare era adottato come strategia di guerra ma condannato dall’etica. Era il tempo in cui se si era in guerra, si era in guerra. Punto. Ma ce lo si diceva dritto in faccia e non lo si mascherava con la cordialità. Il tempo in cui le cortigiane erano cortigiane e si sapeva che lo fossero e l’influenza che avessero. Ma non si cercava di vestirle con l’abito della verginità. Era un mondo che vedo sgretolarsi giorno dopo giorno a colpi di luccicanti e rifinite porte in faccia. Era il mondo dei miei nonni. Il mondo in cui i commercianti facevano credito ai giovani per un vestito o per un letto di nozze senza alcuna garanzia in cambio, poiché ritenevano che anche in quello risiedesse il progresso sociale. Era il tempo della "buona fede" fino a prova contraria. Era il tempo in cui della gente si guardavano le mani e non il cellulare, poiché quella era la garanzia del saper fare. Era il mondo che forse è morto quando il primo sessantottino ha smesso di parlare di pace e amore ed ha accettato un posto in banca e la lista di nozze nel lussuoso casalinghi del centro città. Un mondo assente all'appello che paghiamo giorno dopo giorno: con l’ignoranza, con la standardizzazione, con il silenzio, con le finte riforme e la palese noncuranza. È un’Atlantide coperta che forse comprenderemo essere scomparsa solo quando nessuno avrà più memoria per ricordarla. E senza che nessuno ci faccia caso. Il problema è comprendere se voler affondare con essa, attraversando queste Colonne d’Ercole e rischiando la morte, o se preferire una comoda scialuppa in nylon che luccicante, incerata ed accessoriata, cederà, tuttavia, all’urto con la prima conchiglia, sgonfiandosi e facendo affondare a picco quanto di vano aveva promesso. Il quesito è se rimanere fedeli a noi stessi o diventare quanto sarebbe più comodo essere. “Whatever will be, will be” ma… voi cosa volete che “will be”?

sabato 5 febbraio 2011

Fino a data da destinarsi...

 
Scollinare il lustro dei venti, il quarto di secolo. Rendersi conto che da domani Trenitalia non ti consentirà più di sottoscrivere la Carta Verde, che l'Interrail non credono sia più il viaggio per te, che sei un target focale per il marketing. Rendersi conto che per la prima volta hai un pass residenti e che sul campanello c'è il tuo cognome. Insomma, rendersi conto che un tipo di cazzeggio è finito ma ne può sempre cominciare un altro, magari diverso, ma non necessariamente meno memorabile e intenso. Rendersi conto che hai lasciato pezzi di cuore distribuiti in giro per l'Italia, in giro per il mondo. E che grazie a quel Grande Fratello, che passa al secolo come FB, e ai suoi cugini minori, a volte, quei pezzi di cuore, tornano indietro. Passano giorni, mesi, anni, talvolta anche decenni. Poi un giorno intuisci il significato di quella formuletta che tanto poco successo ha ultimamente nei matrimoni: "finché morte non vi separi". Non funziona nei matrimoni perché dal compagno di una vita ti puoi separare ma gli amici, le persone che tengono a te, non te le scolli di dosso. Sono cicatrici, plasma, sono la tua memoria e i tuoi profumi. Sono quell’appiglio che la natura ti fornisce nel momento più inaspettato per far riemergere dalle sabbie mobili pezzi di vita. Poco importa se non ci si parla più, se si cammina su strade diverse, se si crede di aver divorziato. Dagli amici non si divorzia. Ci si separa fino a data da destinarsi, al massimo. Come i grandi amori, sono proprio quelli più vicini che talvolta fanno soffrire di più ma, come si fa per la famiglia, gli si perdona tanto, poiché, come con una famiglia, spesso non servono parole per litigare e non servono parole per fare la pace. Questo, oggi, per dire grazie a tutti i miei pezzi di cuore che ho sparso per il mondo, a tutti quelli che sono tornati ma anche a quelli che non hanno ricordato o che non ci sono stati, perché è anche grazie a loro che oggi sono così. Grazie a tutti quelli che ci sono, che ci sono stati ma, soprattutto, che ci saranno.

Con affetto

F.M.

martedì 1 febbraio 2011

Scenari danteschi da legge del contrappasso...

Mi piace pensarlo. Mi piace pensare che arriverà quel giorno in cui tutti coloro che sono stati raccomandati pagheranno per i calci nel sedere che hanno ricevuto. La biologia, del resto, mal tollera usi del corpo diversi da quelli per cui la Natura lo ha programmato. Ecco che quel giorno tutti i calci nel sedere si faranno vivi e la Natura si ribellerà. Quel giorno potremo riconoscerli, i raccomandati, perché se prima erano arrogantemente incollati alle proprie sedie, quel giorno e quelli a seguire, per il dolore non potranno sedersi: saranno quelli in piedi.

venerdì 28 gennaio 2011

Shakespeare non voleva scopare...

Fraintendimenti. I Kings of Convenience hanno scritto anche una canzone sul tema, Misread. Quante sono le situazioni da bad timing che potete annoverare nella vostra vita? Ognuno avrebbe una lista infinita. Tanto infinita che qualcuno una volta scrisse che “la strada per l’Inferno è lastricata di buone intenzioni”. Quante volte ci appelliamo alla buona fede, quante sono le volte che arrossiamo per il fraintendimento delle nostre intenzioni nei rapporti affettivi? È la solita questione dei punti di vista. Un aperitivo, due chiacchere e qualche viso amico per renderci conto che, nonostante una comunicazione pressocchè impeccabile, pregiudizi e luoghi comuni hanno travisato le nostre ingenue intenzioni. Peggiori le risoluzioni. La curiosità, insieme alla paura, spingono il mondo e spesso creano fraintendimenti. Il mondo preferisce le dinamiche lineari e conosciute "è normale il fatto che succeda quel che ci si aspetta": fuori dalla linea guida è un pericolo. Fuori dalla linea guida è scomodo ed ignoto. Molto più semplice rispondere ad A con A, un’alfa potrebbe crear confusione. Un’alfa potrebbe far crollare muri e cambiare punto di vista. L’essere umano risponde a stimoli con reazioni semplici o eccessivamente complesse. Ma questa, forse, è una questione di cromosomi. E di fronte al dubbio si fa cadere la ricerca della risposta. O ci si arrovella sul punto fino a non uscirne più. Molto più semplice sentirsi impeccabili e tenere fuori il mondo convincendolo e convincendosi che “va tutto bene” e “non è nulla”. Il “te l’avevo detto”, del resto, ha molte più probabilità di essere estratto del “avevi ragione”. Tuttavia, forse, il romanticismo ai giorni nostri non è morto. Ma non vive nei neo-dandy o nei film di Moccia, come molti possono pensare, sopravvive piuttosto nell’avvicinarsi al prossimo, o nell’essere avvicinati, senza pianificare un secondo fine. "What's in a name?/ That which we call a rose/ By any other name would smell as sweet.".

martedì 25 gennaio 2011

L'uomo nero è nascosto nel box doccia...

Avete presente la sensazione che si prova uscendo dalla doccia? Quel vapore acqueo che pervade tutto il bagno, crea la condensa davanti allo specchio e lascia soltanto intravedere il profilo del lavandino? Alzi la mano chi nella vita non si è mai sentito così. Quei giorni in cui il mondo è ovattato e la mente è confusa. Quei giorni in cui un attimo prima quello che si è deciso sembra la cosa più corretta e l’attimo dopo la cosa più sbagliata. Non sono segni di bipolarismo, come i più simpatici potrebbero pensare, non sono nemmeno segni di confusione: quella si chiama paura. Quella paura che è al contempo il segno e l’essenza della sua pronuncia. Sono i giorni in cui il pantalone sembra stretto anche se è largo di due taglie, in cui non ci piace più il sapore del nostro dentifricio, in cui vorremmo spegnere il cellulare o, al contrario, vorremmo che suonasse. Sono i giorni in cui il nostro Es sembra battere il coperchio della botola per accedere prepotentemente all’Io e prendere a calci nel sedere il super Io. La paura spinge una civiltà, una cultura, il mondo. Se non esistesse sarebbe una tragedia per l’economia mondiale, tutta la filiera si smantellerebbe. Niente paura, niente adrenalina. Niente adrenalina niente persone agitate, euforiche, iperattive, niente droghe, niente alcool, niente mibuttogiùdaunfuoripistavediamo che succede, niente assicurazioni, niente industrie della truffa, niente industria dell’intrattenimento o, per essere chiari e sintetici, niente industria e basta. Niente sport, niente cinema, niente vestitini, creme e cosmetici. Niente innamoramento, niente amore, niente depressione o rabbia. Forse qualche opera umanitaria. Per il resto niente di niente. Nemmeno il cibo perché senza paura di morire di fame, morte di fame senza preoccupazioni. Passiamo la vita a pararci dalle preoccupazioni, alcuni a ponderare, altri a fingere di non temere mentre si buttano nella vita, per poi provare, tutti, presto o tardi, paura. La cosa più brutta della paura è che quando provi paura sei assolutamente da solo. Tutte quelle storie che raccontano sullo sdrammatizzare, sull’affrontare e condividere le paure perché serve, sul metterle per iscritto perché faranno meno paura: sono cazzate. Sicuramente sono utili. Ma sono cazzate. Provate a convincere un bambino di tre anni che l’uomo nero non esiste, che non ha le sembianze dell’alieno del film che ha visto di nascosto dalla madre, che non lo mangerà e che non si trova sotto al letto. Buona fortuna. Dategli torto. Ognuno sente la paura nel proprio corpo. La paura vive con il proprio respiro, risiede nei propri pensieri. È l’umidità che esce con voi dalla doccia e che vi accompagna finché non siete asciutti. C’è solo un modo per farla passare: aprire una presa d’aria. Grande quanto volete: un balcone, una porta, una finestra, un aspiratore. Deviare i pensieri. La nebbia, fuori, risolverà la condensa. La nebbia schiarirà i vostri pensieri.

venerdì 21 gennaio 2011

Siamo quello che mangiamo...

Feuerbach aveva dannatamente ragione. "Siamo quello che mangiamo". La differenza tra l’inizio e la fine di una cena? È che quando si comincia ci sono tutti gli ingredienti ma alla fine si ripone nel frigo la cottura completata. E la magia si è verificata nel mentre. È metafora delle relazioni sociali. Quando si inizia una cena si hanno solo gli ingredienti, le proprie percezioni dei commensali, ma alla fine il risultato è sempre diverso. Nuovo, arricchito, elaborato. Gli ingredienti si sono amalgamati ed hanno creato qualcosa di differente ed unico che è risultato pietanza. Per qualcuno magari era troppo salata. Per altri magari piccante. Alcuni pensavano fosse scotta. Ma tutti erano in uno stato diverso dall’arrivo. Le vite dei commensali sono tutt’uno col cibo e alcuno può terminare una cena senza incamminarsi verso casa con una riflessione in più. Quello che rimane sono avanzi di vita amalgamati, pronti ad essere rimescolati, surgelati e consumati, in maniera tanto più preziosa, nel momento del bisogno o dell’emergenza. Quello che resta sui tovaglioli non sono macchie ma orme di vita che si sono incrociate, ciascuno forse deviando il percorso della vita con cui aveva impattato. Tuttavia al momento dei saluti, al momento di sparecchiare, non interessa la qualità delle stoviglie ma tanto più prezioso è quanto hanno permesso si verificasse. Interessano la qualità e la quantità di quanto si è appreso, mangiato, di come si è speso il tempo. Lì l’alta cucina differisce dal fast food. Lì il simposio differiva dalla scampagnata.

domenica 16 gennaio 2011

Contradiction that works...

Non fatemi domande, perché non avrò risposte.
Non chiedetemi pareri, non si dovrebbero mai chiedere. Del resto non si vive la vita di un altro.
Non pensate sia errato mentire, perché nasciamo come plagi di qualche vita che ci ha preceduto.
Non chiedetevi se l’avete fatto di proposito: l’avete fatto e basta.
Non pensate a quanto avete lasciato ma a quello che potrete trovare.
Sperate, ma non aspettate. L’attesa genera aspettative e le aspettative spesso generano delusione e dolore.
Non sognate una vita ideale ma vivete quella che avete, cogliendo il meglio dai dettagli.
Non abbiate timore di essere derisi, chi vi deride il più delle volte ha delle grosse carenze se paragonato a voi.
Non mangiate alla stessa ora, non dormite alla stessa ora, non scegliete sempre la solita marca di caffè o di cereali ma ricordatevi, sempre, dei consigli di chi si è preso cura di voi nel corso della vostra esistenza.
E quando la testa vi farà male, quando vi sembrerà che manchi l’aria o solo la ragione, quando voi vi sentirete pronti, solo allora, fate un’unica massa di pensieri, parole, consigli, ricordi e quant’altro e mettetela da parte.
“Out beyond ideas of wrongdoing and rightdoing there is a field. I will meet you there.”. Lì, fuori, inavvertita ed inattesa, ci sarà una risposta per dormire sereni la notte.

venerdì 14 gennaio 2011

Less is more...

L’anima dicono pesi 21 grammi.
Alternativamente le parole “ti amo” e “aiuto” si possono racchiudere in file da 25kb.
La differenza di 1mm nella chirurgia può decretare la vita o la morte, la vista o la cecità.
Alle olimpiadi del 1936 le medaglie di atletica leggera furono assegnate per differenze di millesimi di secondo.
Senza i batteri l’essere umano non potrebbe esistere: si misurano con i micrometri.
E nei dettagli della vita a me viene in mente Doyle Dane… "Think small".


sabato 8 gennaio 2011

... Befana, pardon, sicuro che la bolla corrisponda?

Cara Befana,

 camminando per le strade in cui sono cresciuti i miei avi ho segnato un po’ di vorrei, magari ti lascio un post-it poi vedi tu cosa farci per il prossimo anno.

Vorrei che le generazioni dopo la mia avessero la possibilità di scegliere. Vorrei che fossero in grado di riconoscere il profumo della pelle da quella massa di plastica proveniente dalla Cina di cui sono invasi i negozi.
Vorrei che in questo quartiere ci fosse qualcuno ancora in grado di riparare una borsa il giorno che morirà l’anziano artigiano della bottega all’angolo.
Vorrei poter ancora fare la spesa di frutta al mercato, senza aver paura che i bei colori dei cibi sui banchi siano frutto di coltivazioni su terreni radioattivi o d’irrigazioni con acqua contaminata.
Vorrei che non fossero i soliti quattro stronzi a rovinare il lavoro onesto di migliaia di persone.
Vorrei che il caffè non mi fosse più servito da un, nonostante tutto sorridente, stremato, sfruttato, brillantemente laureato cameriere che, a dispetto della propria posizione, ringrazia il cielo per il proprio lavoro.
Vorrei che congiunture economiche non fossero usate come pretesto dietro il quale nascondersi da gente che aveva certi intenti ben prima della congiuntura economica poi verificatasi.
Vorrei che il feudalesimo e le sue pratiche fossero rimaste relegate nel Medioevo.
Vorrei avere la risposta e la soluzione, se non per tutto e tutti, almeno per qualche situazione.
Vorrei non vedere la spiaggia su cui sono cresciuta da piccola ricoperta di spazzatura per lo stato d’inquinamento del mare e dell’uomo.
Vorrei che nei cibi a basso costo non venisse utilizzato l’olio di palma, perché questo farà di genitori poco abbienti bambini malati e con problemi nervosi.
Vorrei che la mia generazione fosse ancora in grado di sognare sogni il cui concetto preveda più di un soggetto protagonista.

Cara Befana, ci sarebbe qualche altro milione di vorrei, ma forse devo dar retta a quell’antica massima popolare che sostiene l’assenza dell’erba “voglio” persino nei giardini del sovrano: sarà per questo che non vedo realizzati tutti i miei vorrei. Facciamo che ci pensi un po’ tu, un po’ magari ci svegliamo anche noi. Grazie gentilissima signora agè.

F.M.

sabato 1 gennaio 2011

Riflessioni davanti a un flûte...

"[...] Maledetti quelli che un giorno non guardarono; maledetti quelli che alla solenne patria non offrirono il pane ma le lacrime; maledette uniformi macchiate e sottane di odiosi, sudici cani da covo e sepoltura ... o dura Spagna i tuoi feroci padroni ti costringevano a non seminare, a non far produrre le miniere, a concentrarti sulle tombe. Non costruite scuole, non riempite i granai: pregate bestie pregate perchè un dio dal culo immenso come quello del re vi aspetta: Lassù avrete la vostra minestra.[...]"

(Pablo Neruda da La Spagna povera per colpa dei ricchi)